sabato 31 luglio 2010
mercoledì 28 luglio 2010
I mulini di Poggio Berni
Da pochi giorni,sulla Home Page del comune di Poggio Berni, spicca il richiamo al nostro Blog “ Lacampagnappenaieri “, un fatto che ha reso felice Grazia e tutti noi ,e per sdebitarci vogliamo raccontare a chi non lo sapesse, come questa comunità poggiobernese coltivi la memoria della sua gente e del suo territorio in tutti i suoi molteplici aspetti.
Una cosa che mi ha incuriosito leggendo la storia di Poggio Berni è la presenza sul territorio di cinque antichi palazzi appartenuti , nel tempo,ad importanti casate, e di altrettanti cinque antichi mulini, registrati già in un documento del 1588 e rimasti attivi , chi più chi meno ,fino a pochi decenni fa.
L’Amministrazione Comunale di Poggio Berni ha posto i mulini al centro delle proprie iniziative per la valorizzazione dei beni culturali della propria comunità.
I cinque mulini ad acqua di Poggio Berni , come tutti i 165 della Valmarecchia ,non rispecchiano però l’immagine classica del mulino con la grande ruota verticale che pesca nel fiume,ma sono del tipo semplice a ruota orizzontale a cucchiai,collegata con l’albero di trasmissione che fa’ girare le macine.
I mulini di Poggio Berni sono: il mulino Pantano o Sapigni ,non funzionante dal 1944 e privo di impianto molitorio; il mulino delle Pere o Ronci, ancora con impianti molitori funzionanti ma che ha cessato l’attività nella seconda metà degli anni ’90; il mulino della Gualchiera o Molinella,oggi abbandonato e privo di impianti molitori ; il mulino Sapignoli ,integro nella struttura architettonica ma con impianti non più funzionanti che ha cessato l’attività nei primi anni’80; il mulino Moroni, che ha conservato intatto l’impianto molitorio anche se non più utilizzato dagli anni ’50.
Gli ultimi due mulini sono visitabili : il mulino Sapignoli mostra un porticato a cavallo della fossa che lo rende uno degli esempi migliori di tutti quelli della Valmarecchia ; il mulino Moroni, acquistato dal comune per allestirvi il museo della Molinologia , ha conservato intatto l’impianto molitorio con tre coppie di macine, 1 da grano, 1 da mais, 1 per biade ed è veramente bello da vedere.
Tutti i mulini,in ogni tempo, sono stati sia luogo di lavoro che luogo d’incontro e di aggregazione, se non addirittura "focolai del vizio" secondo lo storico Le Goff, per commercianti e contadini che portavano i loro prodotti a macinare ,i quali a volte dovevano attendere anche alcuni giorni e accamparsi in ozio sotto porticati e capanni di fortuna.
L’antica tecnica della macinazione è rimasta inalterata per lunghissimo tempo, le macine giravano giorno e notte tra polvere e rumore e solo la mancanza di acqua durante certi periodi estivi secchi, interrompeva l’attività e in alcune antiche cronache comunali si legge addirittura di carestie per mancanza di farina appunto a causa della siccità.
Chi vuolesse saperne di più, può leggere il bel libro “I mulini della Valmarecchia” di Luca Morganti e Mirco Semprini, dal quale ho tratto queste notizie e che illustra con schede e foto tutti i 165 mulini censiti della zona di bacino del Marecchia.
martedì 27 luglio 2010
lunedì 26 luglio 2010
GIUGNO!
GIUGNO!
Fosse all'inizio come alla fine, all'epoca della campagna appena ieri, lui era sempre un grande mese, il mese della mietitura, uno dei cui simboli tipici era la falce.
La falce in campagna si usava per recidere, recidere qualsiasi cosa. Sia nella mitologia antica, come nella simbologia cristiana, la falce non recide solo le messi ma anche la vita degli uomini. E, però, come nella fine delle messi c'é poi anche il suo risorgere, che é dai semi che riemerge la nuova vita, così anche dalla morte la credenza religiosa vuole riemerga una vita nuova. Oltre a questo ci si può rifare alla storia che ha voluto, in un momento di riscatto delle fatiche, della miseria, della povertà riemergesse il mito emblematico della falce, cui si accosta il martello. Se invece ci si rifà ai miti magici dei poeti, perché non riprendere la meraviglia di una falce di luna calante, donataci da D'Annunzio in "Canto novo".
"O falce di luna calannte/che brilli su l'acque deserte,/o falce d'argento,qual mèsse di sogni/ ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie/sospiri di fiori dal bosco/esalano al mare.Non canto non grido/ non suono pe 'l vasto silenzio va.
Oppresso d'amor,di piacere,/ il popol de' vivi s'addorme.../O falce calante, qual mèsse di sogni/ ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!"
Fosse all'inizio come alla fine, all'epoca della campagna appena ieri, lui era sempre un grande mese, il mese della mietitura, uno dei cui simboli tipici era la falce.
La falce in campagna si usava per recidere, recidere qualsiasi cosa. Sia nella mitologia antica, come nella simbologia cristiana, la falce non recide solo le messi ma anche la vita degli uomini. E, però, come nella fine delle messi c'é poi anche il suo risorgere, che é dai semi che riemerge la nuova vita, così anche dalla morte la credenza religiosa vuole riemerga una vita nuova. Oltre a questo ci si può rifare alla storia che ha voluto, in un momento di riscatto delle fatiche, della miseria, della povertà riemergesse il mito emblematico della falce, cui si accosta il martello. Se invece ci si rifà ai miti magici dei poeti, perché non riprendere la meraviglia di una falce di luna calante, donataci da D'Annunzio in "Canto novo".
"O falce di luna calannte/che brilli su l'acque deserte,/o falce d'argento,qual mèsse di sogni/ ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!
Aneliti brevi di foglie/sospiri di fiori dal bosco/esalano al mare.Non canto non grido/ non suono pe 'l vasto silenzio va.
Oppresso d'amor,di piacere,/ il popol de' vivi s'addorme.../O falce calante, qual mèsse di sogni/ ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!"
domenica 25 luglio 2010
I MULOIN ABANDUNED, di Tonino Guerra.
E un dè bsogna ch’a vaga
In fond a la spacadeura dla muntagna
A spicèm te fos che porta l’aqua te Marèccia;
Bsogna ch’a metta e’nès
dròinta i muloin abandunèd
indò che i carbunèr sal meni niri
i spachèva al pagnoti chèldi
da magnè se furmai.
Alazò u i è al rodi fermi
E al murài si ciòd infarinèd
Mo l’aria mosa dal pavaiòti
La i avrà l’udour de pèn
E dla vòita ch’la n'mor mai.
E un giorno bisogna che vada / in fondo alla fessura della montagna / a specchiarmi nel fosso che porta l’acqua al Marecchia ./ bisogna che metta il naso/ dentro i mulini abbandonati /dove i carbonai con le mani nere / spaccavano le pagnotte calde / da mangiare col formaggio. /Laggiù ci sono le ruote ferme /i muri coi chiodi infarinati/ ma l’aria mossa dalle farfalle/ avrà l’odore del pane / e della vita che non muore mai.
mercoledì 21 luglio 2010
"La tera goba" di Aldo Spallicci
Questa volta non si parla di lavori campagnoli o di storie di un tempo,ma proponiamo una poesia di Aldo Spallicci :
LA TERA GOBA.
Fat e’ mond e’ Signor dis ch’u s’è strachè
O che ‘d dèi l’ùtma man u n’ n’aves alsir.
Rimpì e’ mer,stes i cudl int i cantir
L’aveva dl’etra tera da druvè.
E int e’ vlè fè do ciacri cun San Pir
E’ ciamet i garzun a lavurè
E i garzun ch’i n’ cnusceva ben l’amstir
La tera clera ‘d’piò i la ramassè.
E e’vnet i munt gnianch bun par la gramegna,
e e’ Signor int e’vleva rimigè
e’ spargujet int i grep al sment dla vegna;
a e’ muntaner ,sicoma e’ prutesteva,
e’ Signor u i faset: “Sta bon bagian
ch’a to dè de sanzvès cl’è mei de gran".
La terra gobba.
Fatto il mondo dicono che il Signore si stancò/ o che di dargli l’ultima mano non ebbe l’agio./ Riempito il mare, distese le zolle nei campi/ aveva altra terra da adoperare, //
E nel voler fare due chiacchere con San Pietro/ chiamò i garzoni che non conoscendo bene il mestiere,/ la terra che c’era in più l’ammucchiarono.//
E ne vennero i monti ,neanche buoni per la gramigna/ e il Signore nel voler porvi rimedio,/ sparse nei greppi i semi della vigna,//
E siccome il montanaro protestò /il Signore gli fece:” Stai buono baggiano /,che t’ho dato del sangiovese che è meglio del grano”.
venerdì 16 luglio 2010
Manovre di oggi, manovre di ieri....
Visto l’andazzo della “Manovra Tremonti, che colpisce i lavoratori a scapito dei capitalisti, voglio ricordare che queste furbate sono vecchie come il cucco.
Chi sui libri di scuola non ha letto della “tassa sul macinato” del 1868 ?
Ebbene,la tassa sul macinato - detta anche tassa sulla miseria, sulla fame- fu la più importante fra quelle imposte dalla Destra dell’epoca per sanare i bilanci dello Stato prossimi alla bancarotta.
Era una tassa che taglieggiava i contadini al momento della macinazione del prodotto controllando i mulini con appositi contatori.
Grave per tutti, la tassa sul macinato fu gravissima nelle campagne , perché il contadino, costretto a pagarla per lo più in natura, non ebbe modo di rivalersi ,nemmeno in parte ,su altri e crebbero fuor di misura i suoi debiti col padrone e coi terzi.
L’adozione di questa imposta portò ad un aumento del pane e provocò numerose rivolte contadine nel nord del Paese, soprattutto in Emilia ,che furono duramente represse dalle tuppe del Gen. Cadorna e costarono 257morti, un migliaio di feriti e ca. 4000 arrestati.
La tassa fu abolita nel 1880 con l’avvento al governo della Sinistra, ma i suoi effetti devastanti per i contadini si prolungarono ancora a causa del forzato ricorso all’usura che aveva causato un forte indebitamento e costretto molti a dover vendere le bestie della stalla.
Dodici anni di questa odiosa tassa avevano contribuito in modo sostanziale al pareggio del bilancio, ma avevano lasciato la campagna e i contadini stremati e in ben tristi condizioni.
Passano i secoli, passano i ministri, ma i governi di rapina non passano mai.
lunedì 12 luglio 2010
Il raccolto del grano.
Prendo spunto dalla foto di Franco per parlare della mietitura e della trebbiatura del grano di qualche decennio fa.
Oggi enormi macchine, le mietitrebbia, fanno tutto loro e in pochi giorni il grano viene tagliato ,insaccato ,separato dalla paglia legata in grossi rotoli e tutto con poca manodopera e poco sforzo..
Invece, finoa poco tempo fa, la mietitura e la battitura del grano richiedevano un lungo lavoro e la fatica di un numero considerevole di persone.
Lasciamo pure da parte il tempo di quando si mieteva a falce e si batteva a mano e coi buoi:
il taglio a mano è stato abbandonato con l’avvento delle mietilega ,una macchina che falciava il grano e lo legava in mazzi lasciandoli in fila nei campi .
I fasci di grano così legati venivano ammassati formando i covoni, tutti belli allineati e della stessa grandezza, perché anche l’occhio vuole la sua parte e la campagna richiede un qualche senso artistico.
Nei covoni il grano finiva di seccare per bene e quando questo lavoro era terminato, si aggiogavano i buoi al carro grande e si cominciava a trasportare il grano dai campi all’aia, per formare” e’bèrch”,la grande bica che abbisognava del lavoro di parecchie persone.
Io da piccola ho assistito per diversi anni alla costruzione del” barco”: da noi se ne facevano due, perché il podere era molto grande, qualche volta di forma rotonda oppure quadrata,altissimi ,con le spighe all’interno, con i più giovani e forti che si arrampicavano sulle alte scale e con le forche allungavano i fasci legati a quelli che stavano sopra e che dovevano disporli nel modo giusto.
Addirittura , a mano a mano che il barco si alzava, venivano pareggiati con le falci tutti i gambi dei fasci che uscivano fuori squadra , in modo che risultasse il più ordinato possibile e nemmeno una paglia fosse fuori posto.
Fare il barco era una fatica sovrumana e spesso gli uomini delle famiglie vicine collaboravano e poi si ricambiavano l’aiuto a vicenda, ma a volte era necessario ricorrere all’aiuto dei braccianti che non mancavano mai.
E poi si aspettava con ansia il momento della battitura con la “ macchina da bat “, la trebbiatrice a nastro, un cinghione con il quale veniva collegata al trattore .
Ovunque un polverone e un rumore pazzesco,la pula per aria che soffocava e la paglia da ammassare nei pagliai…ma grande soddisfazione per i sacchi di grano che via via gli uomini si caricavano sulla schiena e ammucchiavano sotto il portico.
Poi si divideva la parte di grano che spettava al padrone e si doveva caricarlo sui carri e portarglielo nei magazzini o a casa , e finalmente il lungo e faticoso lavoro del raccolto del grano era terminato .
domenica 11 luglio 2010
venerdì 9 luglio 2010
Ti regalo una poesia
La Casa Abbandonata
All'inizio del filare
Un fico coi rami secchi
Fa la guardia
Alla casa abbandonata
Il melo grande dietro il muro
Non ha più voglia di fare il duro.
Quelle due mele nella vetta
Le becca solo qualche passero
La porta chiusa
Il silenzio chiuso dentro senza luce;
Lì dentro i sogni più non volano
Solo vecchi ricordi la consolano....
Avete sentito come sia poco bella questa poesia!
Sentitela invece in DIALETTO...
A l'inizi dla pianteda/Un fig cun i rem sec/E fa la guèrdia/ a la ca abandunèda./E mel ingarnè dria e mur/ Un à piò voia ad fè e dur./Cal dò meli a la int la veta/ Sol quelc pasarot u li bèca./La porta ciusa/ E silènzi cius ad dentra senza lusa/Ad dentar i sogn piò in vola/ sol vec ricord i la consola/Un sint piò fòli dri la ròla/ A mugì al besci in tla stala,/ i burdèl int l'èra is cor piò dria,/Adès sol erba elta e malincunia./ Prest un tratòr e butarà zo inquèl/ Cumè che fos un badarel./I farà un condomini o un cavalcavia/ Un ént péz ad storia cla va via.
All'inizio del filare
Un fico coi rami secchi
Fa la guardia
Alla casa abbandonata
Il melo grande dietro il muro
Non ha più voglia di fare il duro.
Quelle due mele nella vetta
Le becca solo qualche passero
La porta chiusa
Il silenzio chiuso dentro senza luce;
Lì dentro i sogni più non volano
Solo vecchi ricordi la consolano....
Avete sentito come sia poco bella questa poesia!
Sentitela invece in DIALETTO...
A l'inizi dla pianteda/Un fig cun i rem sec/E fa la guèrdia/ a la ca abandunèda./E mel ingarnè dria e mur/ Un à piò voia ad fè e dur./Cal dò meli a la int la veta/ Sol quelc pasarot u li bèca./La porta ciusa/ E silènzi cius ad dentra senza lusa/Ad dentar i sogn piò in vola/ sol vec ricord i la consola/Un sint piò fòli dri la ròla/ A mugì al besci in tla stala,/ i burdèl int l'èra is cor piò dria,/Adès sol erba elta e malincunia./ Prest un tratòr e butarà zo inquèl/ Cumè che fos un badarel./I farà un condomini o un cavalcavia/ Un ént péz ad storia cla va via.
mercoledì 7 luglio 2010
La "Piantata" emiliano.romagnola.
Fino a non molti anni fa, nella nostra campagna Emiliano-Romagnola prevaleva il caratteristico paesaggio della” piantata”,basato sulla coltivazione dei cereali con quella della vite: un sistema che pemette di far fronte all’esigenza primaria di alimentare la famiglia del contadino e fa del podere una unità economica autosufficiente.
La “ piantata “ affonda le sue radici nel lontano periodo comunale e consiste nella divisione dei poderi in campi regolari, di solito lunghi un’ottantina di metri e larghi trenta ,quaranta metri , separati da fossi sui bordi dei quali crescono filari di alberi ( olmi, gelsi) cui sono “maritate” le viti.
L’equilibrio del podere coltivato a piantata presuppone una trama di rapporti economici e sociali imperniati sulla mezzadria: il proprietario fa lavorare la terra al mezzadro fornendogli la casa, gli attrezzi e metà sementi e in cambio riceve la metà del raccolto , più regalie varie a seconda dei patti colonici della zona.
Per mantenere efficienti questi poderi era necessaria una costante manutenzione dei fossi che delimitavano i campi, al fine di scolare le acque piovane e di eliminare i ristagni là dove si formavano.
Lo scavo dei fossi e delle scoline interpoderali e il livellamento delle cavedagne era un lavoro faticoso compiuto dai mezzadri a colpi di vanga e piccone nei mesi invernali , ed erano attentamente scavati in modo da permettere una corretta circolazione delle acque nelle fosse principali.
Ormai la coltura intensiva e meccanizzata ha eliminato un po’ ovunque la piantata e solo uno sguardo attento può coglierne qualche immagine in qualche appezzamento vicino alle città sfuggito alle macchine agricole o ,per adesso,alla speculazione edilizia.
G.
lunedì 5 luglio 2010
Generale Anders
Il generale Anders, comandante del Corpo Polacco assume il comando del Settore Adriatico, con l'ordine di inseguire le truppe tedesche e di conquistare con la massima velocità il porto di Ancona (Seconda battaglia di Ancona)
domenica 4 luglio 2010
venerdì 2 luglio 2010
Il rinnovo dei patti agrari nel 1920.
Dal 1919 al 1920, nel cosiddetto “ biennio rosso”,numerose proteste e vertenze che riguardano il mondo agricolo conoscono momenti di asprezze e scontri violenti ( due scioperanti vengono uccisi nel Reggiano e molti i feriti e i malmenati un po’ in tutta l’Emilia-Romagna e nel Veneto)e le tensioni e i sabotaggi provocheranno poi la reazione di agrari e fascisti, la nuova “forza emergente”.
Braccianti e mezzadri un po’ dovunque incrociano le braccia , chiedono un rinnovo e un miglioramento dei patti colonici e resistono davanti al rifiuto dei proprietari” poco inclini a concessioni e fiduciosi nell’ascendente morale che finora è stato grandissimo e che ritenevano di aver conservato sui coloni”.
Siamo nel luglio del 1920, precisamente il 4.
I coloni in Romagna sono in sciopero per i patti agrari che ancora non sono stati firmati dai proprietari locali e tra i contadini della Tenuta Torlonia ,che allora contava 144 poderi, qualcuno propone di portare in paese, a San Mauro,per protesta, tutto il bestiame adulto e legarlo qua e là,perfino sul sagrato della Chiesa.
Così avviene una vera e propria invasione di bovini, in attesa dell’arrivo del sindacalista che doveva arrivare in motoretta e portare notizie in merito , il quale arriva solo verso sera con la conferma che i patti erano stati finalmente firmati e che tutti potevano tornare a casa e al lavoro.
Se i mezzadri potevano considerarsi soddisfatti, un po’ meno però lo erano i cittadini di San Mauro,che in una giornata afosa e piena di sole come poteva essere il 4 luglio,avevano sopportato circa 500capi di bestiame che avevano lasciato il paese pieno di sterco , di mosche e di un puzzo di orina da non respirare.