mercoledì 29 dicembre 2010
Fine d'anno 1899 , 1 gennaio 1900:diario di un archivista.
Dal diario comunale di Santarcangelo di Romagna, redatto dal protocollista Elia Gallavotti , riportiamo queste note :riguardano la conclusione del lontano anno 1899 e il primo giorno del nuovo anno 1900.
_ Conclusione dell’ultimo anno del secolo XIX_
Il 1899 che sta’ per finire ,si può annoverare per prodotti agricoli fra le annualità non straordinarie, ma discretamente buone , giacchè il raccolto del grano in questi luoghi è stato più abbondante che scarso, e così pure il granturco massime nelle vicine colline .
Tutti gli altri piccoli prodotti come fagioli,ceci ecc. sono stati la maggior parte discreti.
Il raccolto poi dell’uva è stato più abbondante dell’anno scorso ,e di qualità assai migliore perché tutti i malanni che fan guerra alla vite sono stati combattuti con esito favorevole.
La caccia in generale è stata meschinissima tanto pei volatili di bosco come quelli di palude. In questi luoghi non vi è ormai più bisogno di proibirla in certe epoche ,giacchè colla totale mancanza dei volatili, viene proibita da se stessa.
Questo comunale territorio ha sofferto qualche danno in alcune frazioni per grandine e vento assai furioso, ma allontanandosi da questo centro la grandine di forza maggiore ha dato danni enormi , con qualche vittima per fulmini.
Allontanandosi anche di più, le disgrazie sono state assai frequenti e terribili,come per esempio frane che han massacrato villaggi con diverse vittime , inondazioni fatali con danni immensi, incendi colla scomparsa di molte abitazioni con danni incalcolabili, insomma i quattro elementi hanno furiosamente signoreggiato in quest’anno lasciando in diversi luoghi deplorabile memoria.
_1 gennaio 1900,del così detto Anno Santo _
A mezzanotte del 1 gennaio del nuovo Secolo XX in questa Chiesa maggiore fu celebrata Messa solenne con musica, come primo segnale dell’Anno Santo ricco di indulgenze riguardanti l’annunciato Giubileo.
La popolazione ivi accorsa fu immensa, e sentendo che il Papa concede indulgenza plenaria a tutti i peccati col semplice obbligo di alcune visite alle Chiese e di accostarsi al confessionale, certamente in questo anno la Chiesa avrà una clientela d’avventori assai numerosa…..Quanta superstizione esiste ancora!.....
domenica 26 dicembre 2010
Le dodici notti di "tempo fuori dal tempo".
Nel bagaglio tradizionale di molti popoli,il tempo che intercorre da Natale all’Epifania è un tempo “fuori dal tempo”, in quanto queste dodici notti sono “di passaggio “ da un anno all’altro e quindi non appartengono né a un anno ne’ all’altro.
Il periodo del Capodanno è considerato un periodo magico, nel quale, approfittando del “buco nel tempo”si dice che le anime dei morti ritornino tra i vivi:bisogna perciò accoglierli bene, in quanto i nostri antenati sovrintendono , secondo antiche tradizioni contadine, alla fertilità e alla fecondità dei raccolti.
Le anime dei morti però incutono timore e sovente ,per propiziarseli, venivano eseguiti in quelle notti diversi riti di accoglienza come lasciare loro la tavola imbandita, o preparare davanti al camino un catino con acqua e un asciugamano per potersi lavare, o accendere per loro un bel fuoco nell’”aròla “della cucina.
L’ultima notte, quella dell’Epifania, era il momento in cui il “tempo magico” si chiudeva e ci sono, nel folklore di diverse zone, varie pratiche tese ad assicurarsi che tutte le anime dei morti fossero tornate alla propria dimora sotterranea.
In certi paesi del Modenese ,ad esempio, subito dopo la mezzanotte dell’Epifania, (chiusura delle dodici notti), il parroco si recava ai crocicchi, munito di aspersorio e acquasanta ,per cacciare le “streghe” e gli spiriti dei morti dai confini della parrocchia.
Gli stessi fuochi accesi nelle campagne la vigilia dell’Epifania o in quelli immediatamente seguenti, rappresentavano un auspicato ritorno alla normalità, con “la cacciata dei ritardatari o dei restii nelle loro sedi sotterranee".
Oltre a queste credenze ,durante i dodici giorni a cavallo del Capodanno si poteva prevedere lo stato del tempo dell’anno nuovo.
Osservando le condizioni meteorologiche dei dodici giorni , a ciascuno di questi si fanno corrispondere i dodici mesi:se la giornata è bella, anche il mese corrispondente sarà contrassegnato da tempo sereno e viceversa.
Religione e superstizione ,come vediamo,convivono da sempre…..
giovedì 23 dicembre 2010
Auguri di buon Natale.
mercoledì 22 dicembre 2010
Natale nella campagna appena ieri.
Natale è una festività che anche una volta in campagna si è sempre cercato di rispettare con tutti i doveri cattolici e tradizionali.
Anche le famiglie più povere cercavano ,per quanto possibile,di rimediare un buon pranzo ,un ceppo per il camino ,“e’ zòc ad Nadèl”,e qualche dolce per i bambini di casa.
I giorni precedenti il Natale nelle famiglie contadine si faceva un po’ di ordine in casa, si cambiavano le lenzuola, uomini e bambini si tagliavano i capelli , (lavoro che di solito faceva una donna di casa , mia nonna per esempio era molto brava, a noi nipoti ha tagliato i capelli finchè non siamo andati a scuola) e si facevano le pulizie personali.
Molti, soprattutto gli anziani, facevano il bagno per Natale e poi per Pasqua, ma anche gli altri di famiglia non è che lo facessero molto più spesso,soprattutto l’inverno.
Scaldavano l’acqua nel paiolo sul fuoco del camino e la trasportavano nella mastella del bucato nella stalla: si lavavano lì,spesso più di uno nella stessa acqua, dato che era il luogo più caldo della casa.
In molte famiglie contadine il mattino della vigilia facevano il pane e la tradizionale ciambella che i più ricchi arricchivano con uva passa o noci e poi preparavano baccalà o cefali o “buratelli”per la sera ,o qualche piatto di magro come i cardi in umido, perché nessuno ,anche chi non era particolarmente rispettoso della religione , si sarebbe sognato di non onorare la vigilia.
Il pranzo di Natale ,nella campagna di una volta ,era per i più abbastanza modesto ; consisteva principalmente di gallina in brodo e tagliolini e solo per chi poteva permetterselo cappone,pasta ripiena o pasta al forno, ma c’era anche chi doveva accontentarsi di molto meno…..soprattutto per”casanti ”e braccianti che d’inverno andavano avanti di polenta e fagioli perché lavoravano poco e dovevano tirare la cinghia.
Il pomeriggio e la sera lo passavano in compagnia di amici e parenti a giocare a carte o a mangiare brustolini, ed era festa grande se c’erano castagne arrosto con un bicchiere di vino o meglio vin brulè che scaldava e faceva allegria.
Il Natale di una volta, fino agli anni a cavallo della Seconda Guerra,era un Natale senza albero, senza presepe , senza addobbi e senza regali, un giorno di festa come lo poteva essere una festa parrocchiale, con forse qualcosa in più in tavola e magari un bracciatello o un’arancia o un mandarino per i bambini, frutto allora quasi sconosciuto in campagna.
Già la cena della sera rientrava nella normalità di tutti i giorni , le donne non lasciavano per molto la rocca e filavano anche quel giorno fino a tardi , perché come dice un proverbio: “ Chi di Nadel non fila, di carnavèl suspira” , cioè chi ha tempo, non aspetti tempo, festa o non festa che sia.
domenica 19 dicembre 2010
il ceppo di Natale.
In gran parte dell’Italia settentrionale vi era ,e forse vi è ancora, l’antica usanza del ceppo natalizio, ma come questa tradizione sia nata, nessuno lo sa con certezza.
Sappiamo che il fuoco acceso nei giorni del solstizio invernale rappresentava per gli uomini una pratica per ingraziarsi e rinforzare il sole stesso; oppure veniva acceso come sistema difensivo nel periodo delle “dodici notti” ,da Natale all’Epifania, quando i morti, approfittando del passaggio da un anno all’altro, in un” tempo fuori del tempo”,tornavano nella dimensione terrena…..
Poi, come accomodamento, viste le diverse condanne ecclesiastiche contro l’uso del ceppo e lo spargimento dei suoi resti e della cenere nei campi , venne interpretato nella cultura cattolica popolare come rimedio per scaldare Gesù Bambino appena nato.
Il ceppo ,prima di tutto, doveva essere il più grosso possibile perché doveva ardere a lungo , almeno dalla vigilia al giorno dopo Natale, per alcuni meglio addirittura senza interruzione fino all’Epifania.
Mentre il ceppo bruciava, la donna anziana di casa doveva battere le braci per sollevarne numerose faville e propiziare così alla faniglia fortuna e abbondanza dei raccolti.
I resti carbonizzati del ceppo venivano sparsi sulla terra dei vigneti il giorno stesso di Natale e anche sul tetto della casa e della stalla per proteggersi da tempeste ,fulmini e fuoco in generale.
Qualsiasi interpretazione si voglia dare del ceppo natalizio, essa conduce al potere purificatore del fuoco, del sole e della luce: la luce solare è stata sempre considerata come potente avversaria della malattia, dei malefici e dell’infestazione e il fuoco di un grande ceppo, nel periodo solstiziale, era forse lo strumento per evocare tutto questo.
giovedì 16 dicembre 2010
Lo Squacquerone di Romagna.
Lo “Squacquerone di Romagna”, detto anche squacquero o squacquarone, è un formaggio tipico romagnolo dalle origini molto antiche.
Il nome ha origine dalla parola dialettale “ squaquaròn” che indica l’elevata acquosità di questo formaggio che essendo molto molle tende ad assumere la forma del recipiente in cui viene messo.
Estremamente morbido,(è composto per il 60per cento di acqua) senza crosta, è un formaggio facilmente spalmabile (uno degli ingredienti preferiti per farcire la piada), e va consumato entro pochissimi giorni dalla sua produzione.
In passato era consuetudine produrlo e quindi consumarlo solo durante l’inverno proprio grazie alla maggiore possibilità di conservarlo per alcuni giorni.
Oggi invece è prodotto tutto l’anno da latte vaccino intero,del quale mantiene il sapore leggermente acidulato e si trova nelle latterie, nei negozi di gastronomia e nei supermercati in qualsiasi stagione.
Nonostante fosse in origine un prodotto di stampo campagnolo, lo Squacquerone piaceva ed era apprezzato anche dai palati più raffinati, e molti Romagnoli illustri che nel tempo ,per mestiere o professione erano costretti ad abitare lontani, cercavano di farselo inviare ogni tanto per ricordare in questo modo uno dei sapori della loro terra.
mercoledì 15 dicembre 2010
La cucina dell'azdòra dal lunedì al sabato.
La cucina contadina tradizionale Romagnola ,che oggi tutti conoscono e che riempie libri e trattati di cucina, non è altro che la raccolta dei cibi delle feste, che solo in quei giorni si mangiava la carne arrosto, o la gallina in brodo, o la pasta al forno, o i cappelletti o il prosciutto e la ciambella.
Del cibo di tutti i giorni poco sappiamo se non quello che ci raccontano i nostri nonni che non fanno altro se non rammentarci la grande miseria e la grande fame che non li abbandonava mai.
Della cucina Romagnola feriale, “d’indè” , come si dice nel nostro dialetto,ne parla e ne descrive le caratteristiche Grazia Bravetti Magnoni ( l’ideatrice di questo blog), nel suo libro “ La cucina dell’arzdora”, ora giunto alla V edizione .
La cucina feriale contadina, scrive Grazia,era abbondante solo nei periodi dei grandi lavori, del raccolto e della battitura del grano e della vendemmia , quando il lavoro era pesante e si faticava da “un buio all’altro”, negli altri periodi tutto diventava di pura sopravvivenza.
D’inverno , soprattutto da novembre a febbraio, le famiglie che consumavano tre pasti al giorno si potevano contare, perché quasi la totalità dei contadini e dei braccianti si riuniva a tavola solo al mattino tra le 9 e le 10 per la colazione e verso sera , alle 5, per cenare.
Il più delle volte per colazione l’arzdòra metteva in tavola la polenta, condita con cipolla e pancetta o con sugo di fagioli ed era già una bella mangiata, perché a volte c’era solo pane secco ,che gli uomini ammollavano nel vino allungato con l’acqua,con una fetta di pancetta o un pezzetto di aringa affumicata ad insaporire verze o cavoli.
Se invece passava per le case la pescivendola con la sua cassetta del pesce legata alla bicicletta, si potevano comprare ogni tanto”poverazze” o “murscioni” o “saraghine”per poco o preferibilmente in cambio di qualche uovo .
La cena poteva essere più varia ma raramente più abbondante ed era sempre piatto unico: fagioli “schietti” nei quali inzuppare il pane o la piada, radicchi e cipolla, verze con dei pezzetti di salsiccia, patate in umido, maltagliati con ceci o con i fagioli ,“lunghèt” e “zavardòuni”senza uova” , poche fettine di formaggio con la piadina, erbe di campagna o baccalà che era già un lusso.
Il pane si cuoceva una volta alla settimana o anche due e in molte famiglie era conservato sotto chiave, le uova si consumavano raramente, perlopiù servivano da vendere o da barattare in cambio di sapone, olio o zucchero per la famiglia, e anche la carne del maiale veniva conservata e razionata con attenzione .
Solo per le feste e nei periodi di raccolto sulle tavole appariva la gallina in brodo, il prosciutto, le tagliatelle all’uovo o il coniglio arrosto.
Per il resto,e fino agli anni cinquanta, era sostanzialmente un regime alimentare povero tutto basato sulla pura sussistenza e su una stretta economia.
venerdì 10 dicembre 2010
" E' RUMAGNUL " di Aldo Spallicci.
E Rumagnùl , di Aldo Spallicci.
E’ Signor, fat e’ mond,e’va un po in zir
E cun San Pir e’ passa do parol;
e intant ch’j è int una presa,u i fa San Pir:
“La Rumagna t’lè fata e e’ rumagnùl?
Ui vo dla zenta sora a sti cantìr,
t’a n’vrè zà fè la mama senza e’ fiul”?
“ Me a t’e’ farò, mo l’ha dal bròt manir
e a j ho fed ch’u n’gni azova gnianca al scòl”.
E’ daset ad chelz par tèra cun un pè
E e’ faset saltè fura ilè d’impèt
E’ vigliacaz de’ rumagnul spudè.
In mang ad camisa , svidurè int e’ pèt,
un caplìn rudè com un fatòr;
“ A so qua mè, ciò, boia ded’ S…..!”
Il romagnolo.
Il Signore ,fatto il mondo,va un po in giro /e con San Pietro scambia due parole,/e mentre sono in un podere ,gli fa San Pietro:/ “La Romagna l’hai fatta,e il romagnolo?/Ci vuol gente sopra questi campi ,/ non vorrai mica fare la mamma senza il figlio?”/”Io te lo farò, ma ha brutte maniere,/ e credo che non gli giova nemmeno la scuola”./Dette un calcio per terra con un piede / e fece uscir fuori lì dirimpetto / il vigliaccaccio del romagnolo sputato/.In maniche di camicia, sbottonato sul petto/,un cappellaccio a ruota come un fattore/, : “Sono qua io, allora, boia del S….!
martedì 7 dicembre 2010
Le veglie "nella campagna appena ieri."......
In Romagna, le veglie invernali si tenevano di solito nelle stalle, il luogo più caldo della casa, grazie al fiato delle bestie che erano quasi sempre parecchie ,dato che servivano per i lavori di traino e di aratura.
Dopo cena la famiglia vi si trasferiva al completo e spesso si univa loro qualche vicino o qualche giovanotto che faceva la corte alle ragazze di casa.
Ma anche durante la veglia, a meno che non fosse festa, i contadini non stavano mai con le mani in mano, c’era sempre qualcosa da fare.
C’era chi aggiustava gli attrezzi, chi intrecciava cesti di vimini, chi faceva le scope con i rami di saggina, chi sgranava le pannocchie,chi preparava le trappole per gli uccelli da mettere presso i pagliai nell’aia il giorno dopo…..tanti erano i piccoli lavori di tutti i giorni.
Ma più di tutti lavoravano le donne che con l’inizio dell’inverno avevano rimontato il telaio e ripreso il lavoro della filatura e della tessitura , senza contare il lavoro ai ferri per le calze e le maglie di tutta la famiglia che di certo una volta non si compravano nei negozi come ora.
Ma mentre le mani erano occupate in cento cose, fiorivano i racconti e le storie più o meno fantasiose sui fatti recenti o passati relativi alla comunità , ai ricordi, agli avvenimenti di guerra o semplicemente ispirati a favole o a storie di paura che incantavano soprattutto i più piccoli.
Nel libricino del comune di Poggio Berni“ Quando d’inverno faceva la neve”, Federica Foschi ha raccolto una serie di gustose testimonianze su questi racconti che hanno come protagonisti folletti, fantasmi, stregoni e perfino draghi.
Tanti una volta erano i luoghi dove si diceva che“ci si vedeva” o “ci si sentiva”,specialmente di notte lungo strade fiancheggiate da grandi siepi, in palazzi disabitati o nei pressi di mulini ,ponti e conventi…..
Perché in campagna una volta le notti erano veramente buie, di un buio che oggi non possiamo nemmeno immaginare , e anche con la luna, chi si trovava a dover viaggiare dopo il tramonto lo faceva sempre con passo svelto e attento ad ogni rumore, che anche il rumore dei propri passi poteva dare l’impressione di essere seguiti e di avere a che fare con un fantasma o un’anima in pena.
Così nascevano i racconti di paura che , un po’ veri e un po’ inventati , si raccontavano un inverno dopo l’altro nelle veglie quando ancora non esistevano radio e televisione.
venerdì 3 dicembre 2010
Il "Pataca "romagnolo.
Nel dialetto romagnolo “Pataca” è una parola più complessa e ricca di sfumature di quanto non sia negli altri dialetti o parlate varie.
E’ parola usata soprattutto nell’Italia centrale e definisce le seguenti accezioni:
_ patacca come moneta falsa o di poco valore,
_ patacca come macchia sugli abiti ,
_ patacca per definire persone inette o sciocche.
In Romagna la parola perde una c e diventa “pataca”, ma acquista un più sottile e particolare significato.
Pataca è si insulto , ma,per lo più, spesso affettuoso, che di solito indica uno che si dà delle arie, che vanta qualità che non possiede, che la dà ad intendere , che racconta storie , che si prende troppo sul serio.
“ Nu fa e’ pataca”; “t’ci ste un gran pataca “; l’ha fat una figheura da pataca”; “e’ dventa sempra piò pataca”; “lasa andè ad fe’ e’ pataca”; “ mo e’ dventa sempra piò pataca”….….sono solo alcuni dei modi di dire più usati .
Il pataca in fondo è uno incline all’esibizionismo, uno che cerca il consenso e l’applauso, e le pataccate “ al patachèdi “ sono la conseguenza del bisogno di essere considerato,di essere al centro delle attenzioni ,anche a costo di esagerare.