ATTENZIONE
STANNO FINENDO I TERMINI DEL CONCORSO DI POESIE O ZIRUDELE IN DIALETTO ROMAGNOLO IN ONORE DEL POETA G. VILLA. INVIATE GLI ELABORATI
AL COMUNE DI SAN CLEMENTE ( RIMINI). SIATE SOLLETICI, ANZI SOLLETICISSIMI ! INTANTO A SAN CLEMEBTE TUTTI VI ATTENDONO.
giovedì 29 aprile 2010
Caldaia della Filanda Alessandrini di Osimo
Me la ricordo perfettamente, attiva fino agli ann'50. Le Marche e il Veneto sono state nel passato le più grandi produttrici del baco da seta in campo nazionale.
mercoledì 28 aprile 2010
Tra Aprile e Maggio
Avete visto, carissimi amici, come si è comportato APRILE? Più o meno come lo ha sempre presentato la tradizione, " Aprile dolce dormire. / Aprile pazzerello/ or col cappello / or con l'ombrello./ Aprile, ogni giorno un barile. " E' inutile, altro che spendere i soldi, a Dicembre, per andare a comprore i CALENDARI, o i LUNARI, che è la stessa cosa. Di soldi a Dicembre se ne spendono tanti, meglio risparmiare almeno coi calendari, che basta la memoria della Tradizione:- ma ne abbiamo ancora memoria per LEI? Se volete qualche ricordo lo trasmettiamo nel nostro BLOG. RICORDATE:
-GENNAIO mette ai monti la parrucca.
-FEBBRAIO grandi e piccoli imbacucca
-MARZO pazzerello, col vento nel cestello
oppure
- Marzo tristo/ che ha ucciso Cristo - ( questo durante la Quaresima.)
Ed ora ci si ferma qui, dal momento che di Maggio parleremo finito Aprile.
-GENNAIO mette ai monti la parrucca.
-FEBBRAIO grandi e piccoli imbacucca
-MARZO pazzerello, col vento nel cestello
oppure
- Marzo tristo/ che ha ucciso Cristo - ( questo durante la Quaresima.)
Ed ora ci si ferma qui, dal momento che di Maggio parleremo finito Aprile.
martedì 27 aprile 2010
L'allevamento dei bachi da seta.
........
Una produzione molto importante,in Romagna, che dava buon reddito e che ebbe fortuna fin verso la seconda guerra mondiale, era l’allevamento dei bachi da seta .
In Romagna ,infatti, non c’era quasi casa contadina, o di braccianti o anche di piccoli borghesi dove non vi fosse una camera , magari la più pulita e ventilata,che nella stagione primaverile non ospitasse “è castel di bigàt”.
Le uova dei bachi venivano poste in incubazione a fine aprile, tanto che il proverbio dice : “par S. Mèrc (25 aprile) ,è bigat o chl’è post ochl’è nèd”( per S. Marco, il baco o che è posto o è nato).
Nella nostra zona ci si procurava le uova da certe ditte specializzate di Ascoli Piceno ,che le vendevano in piccole buste bianche ,pesandole ad once.
Quando le uova cominciavano a schiudersi, i piccolissimi vermetti scuri venivano posti in una scatola al caldo e alimentati con tenere foglie di gelso tritate finemente (al foi d’àmour).
Dopo una settimana si trasferivano su graticci ricoperti di foglie di gelso sempre fresche e si attendeva la prima muta delle quattro che si succederanno nei quaranta giorni della durata completa dell’allevamento.
Per ogni muta, momento delicato e seguito con ansia per paura delle malattie , venivano cambiate e ingrandite le lettiere,e alla fine queste formavano un grande castello di fascine con graticci di sei-otto piani.
Quando il ciclo larvale era concluso, tra i graticci si infilavano ulteriori rametti secchi sui quali i bruchi si sistemavano finalmente a filare il loro bozzolo di seta.
A bozzoli completati ,in giugno, si staccavano con delicatezza , si scartavano quelli avariati ( i lùrdèun) e finalmente si portavano ai mercati ,ai “pavaglioni”: quelli più famosi in Romagna erano quelli di Lugo, Forlì e Meldola.
Anche a San Mauro l’allevamento del baco da seta aveva una particolare rilevanza, ed era stato molto incentivato , soprattutto nella tenuta Torlonia ,piantando in ogni podere una grande quantità di gelsi, tanto che all’inizio del 1900, se ne contavano ben 2137.
Nel contratto di mezzadria ,ancora valido fino ai primi del ‘900, un articolo apposito recita che “la foglia del moro è tutta del padrone, il quale potrà cederla al colono per tenere in conto a metà i vermi da seta”.
Lo stesso Comune,inoltre, imponeva agli allevatori l’obbligo di denunciare :”il quantitativo dei bachi e della foglia occorrente al loro nutrimento,nonché gli alberi di gelso disponibili”,pena una approfondita perquisizione domiciliare.
G.
Una produzione molto importante,in Romagna, che dava buon reddito e che ebbe fortuna fin verso la seconda guerra mondiale, era l’allevamento dei bachi da seta .
In Romagna ,infatti, non c’era quasi casa contadina, o di braccianti o anche di piccoli borghesi dove non vi fosse una camera , magari la più pulita e ventilata,che nella stagione primaverile non ospitasse “è castel di bigàt”.
Le uova dei bachi venivano poste in incubazione a fine aprile, tanto che il proverbio dice : “par S. Mèrc (25 aprile) ,è bigat o chl’è post ochl’è nèd”( per S. Marco, il baco o che è posto o è nato).
Nella nostra zona ci si procurava le uova da certe ditte specializzate di Ascoli Piceno ,che le vendevano in piccole buste bianche ,pesandole ad once.
Quando le uova cominciavano a schiudersi, i piccolissimi vermetti scuri venivano posti in una scatola al caldo e alimentati con tenere foglie di gelso tritate finemente (al foi d’àmour).
Dopo una settimana si trasferivano su graticci ricoperti di foglie di gelso sempre fresche e si attendeva la prima muta delle quattro che si succederanno nei quaranta giorni della durata completa dell’allevamento.
Per ogni muta, momento delicato e seguito con ansia per paura delle malattie , venivano cambiate e ingrandite le lettiere,e alla fine queste formavano un grande castello di fascine con graticci di sei-otto piani.
Quando il ciclo larvale era concluso, tra i graticci si infilavano ulteriori rametti secchi sui quali i bruchi si sistemavano finalmente a filare il loro bozzolo di seta.
A bozzoli completati ,in giugno, si staccavano con delicatezza , si scartavano quelli avariati ( i lùrdèun) e finalmente si portavano ai mercati ,ai “pavaglioni”: quelli più famosi in Romagna erano quelli di Lugo, Forlì e Meldola.
Anche a San Mauro l’allevamento del baco da seta aveva una particolare rilevanza, ed era stato molto incentivato , soprattutto nella tenuta Torlonia ,piantando in ogni podere una grande quantità di gelsi, tanto che all’inizio del 1900, se ne contavano ben 2137.
Nel contratto di mezzadria ,ancora valido fino ai primi del ‘900, un articolo apposito recita che “la foglia del moro è tutta del padrone, il quale potrà cederla al colono per tenere in conto a metà i vermi da seta”.
Lo stesso Comune,inoltre, imponeva agli allevatori l’obbligo di denunciare :”il quantitativo dei bachi e della foglia occorrente al loro nutrimento,nonché gli alberi di gelso disponibili”,pena una approfondita perquisizione domiciliare.
G.
domenica 25 aprile 2010
venerdì 23 aprile 2010
Concorso di poesia "Giustiniano Villa"
Giustiniano Villa, in un disegno di L.Pasquini, che declama le sue "zirudele".
Ricordiamo che fino alla fine di aprile è possibile partecipare al diciottesimo concorso di poesie e Zirudele in dialetto romagnolo, che la città di San Clemente di Rimini bandisce per ricordare il suo concittadino Giustiniano Villa.
Per info: 0541 862421.
Giustiniano Villa 21 sett.1842 - 23 aprile 1919
Oggi, 23 aprile, è il novantunesimo anniversario della morte del poeta dialettale Giustiniano Villa ,nato a San Clemente di Rimini nel 1842 e morto il 23 aprile 1919.Abbiamo pensato di ricordarlo con la “Festa del Primo Maggio”,composta nel 1890, anche per la vicinanza con questa data, tra pochi giorni.
Prendiamo spunto anche per parlare di questa festa: fu istituita alla fine del congresso della Seconda Internazionale del 1889, per ricordare gli otto lavoratori che il primo maggio 1886, a Chicago, vennero impiccati dopo alcune proteste per il miglioramento delle condizioni di vita degli operai.
La rivendicazione principale che volevano ottenere i lavoratori ,era quella della giornata regolata sulle otto ore, mentre i padroni, abituati a sfruttare gli operai con lunghissimi orari, resistevano accanitamente, con l’aiuto dei governi e delle forze di polizia.
In Italia, la prima manifestazione del Primo Maggio 1890, quella della zirudela di Villa, ,sebbene di proporzioni limitate, causò dappertutto nella borghesia grande sorpresa,suscitando ovunque sgomento e paura. Ma quella volta non ci furono episodi violenti significativi.
Ben peggio andarono le cose nel 1891, dove alcune cariche della polizia causarono due morti e decine di feriti.
Da quel giorno gli scontri, in questa data, furono la norma costante ,senza contare la soppressione della festa dei lavoratori durante il fascismo .
Ricordiamo inoltre i fatti del Primo Maggio 1947,dove a Portella della Ginestra , i banditi, assoldati dagli agrari siciliani, uccisero otto manifestanti e ne ferirono 32 .
La festa del Primo Maggio (1890).
Oh che spavent! Oh che terròr! / Che e prim dè d’Maz la mes ti sgnòr /
I na fuzzi da la zittà /Quasi quasi una mità, /
E quii chiè rest ti su palaz / i tià cazè tent ad’ cadnaz. /
Ench i preti à vu paura,/i se dè ‘na gran premura,/
Da fè tott al su funzioun / per buschès da fe clazion,/
E po la cisa i la ha ciusa / senza avè nissuna scusa./
Bondè sènt e bondè Crest, /e bonanota chi cià veist./
Me a desider un parer,/d’un imparziel d’un om sincer /
Che tent vòlt un om è sbaia,/e tò so un fil per una paia:/
Me degh, che tott la gran paura / le che l’alma la né pura./
E siccom che lor ià scienza,/i sent a mord la su cuscienza./
Perché i sent tent i puret / affamèd e derelett,/
Ch’impreca sempra contra d’lor / chi na né pen e né lavòr /
E lè per quest, sangue de boia,/che si sent a mov ‘na foia,/
I ciapa un fred, na tremassoun/che siè in cent, in fa per oun./
…………………………………………………………….
Ma me ca sent un po’ ad dolor / perché oltre ca lavor /
Impiched ma che banchèt,/ca so costrett ad fe l’archett/
E tent al volti a faz clazion / dop e toc de campanon!/
Am toca di la verità / s’ cètta e netta com la stà. /
A vidrì che la questiòn /la va aventi e la s’impon ./
…………………………………………………………….
E per finire, da buon “zirudellaro”……
sa vlì cumprè sta canzuneta,/mittì un sold i què tla brèta/
Un sold sòl, bòia d’un mond! /sa sì tent i que d’atond !/
San vulì ca vaga via ,/acquistè sta poesia.
Saluti
G.
Prendiamo spunto anche per parlare di questa festa: fu istituita alla fine del congresso della Seconda Internazionale del 1889, per ricordare gli otto lavoratori che il primo maggio 1886, a Chicago, vennero impiccati dopo alcune proteste per il miglioramento delle condizioni di vita degli operai.
La rivendicazione principale che volevano ottenere i lavoratori ,era quella della giornata regolata sulle otto ore, mentre i padroni, abituati a sfruttare gli operai con lunghissimi orari, resistevano accanitamente, con l’aiuto dei governi e delle forze di polizia.
In Italia, la prima manifestazione del Primo Maggio 1890, quella della zirudela di Villa, ,sebbene di proporzioni limitate, causò dappertutto nella borghesia grande sorpresa,suscitando ovunque sgomento e paura. Ma quella volta non ci furono episodi violenti significativi.
Ben peggio andarono le cose nel 1891, dove alcune cariche della polizia causarono due morti e decine di feriti.
Da quel giorno gli scontri, in questa data, furono la norma costante ,senza contare la soppressione della festa dei lavoratori durante il fascismo .
Ricordiamo inoltre i fatti del Primo Maggio 1947,dove a Portella della Ginestra , i banditi, assoldati dagli agrari siciliani, uccisero otto manifestanti e ne ferirono 32 .
La festa del Primo Maggio (1890).
Oh che spavent! Oh che terròr! / Che e prim dè d’Maz la mes ti sgnòr /
I na fuzzi da la zittà /Quasi quasi una mità, /
E quii chiè rest ti su palaz / i tià cazè tent ad’ cadnaz. /
Ench i preti à vu paura,/i se dè ‘na gran premura,/
Da fè tott al su funzioun / per buschès da fe clazion,/
E po la cisa i la ha ciusa / senza avè nissuna scusa./
Bondè sènt e bondè Crest, /e bonanota chi cià veist./
Me a desider un parer,/d’un imparziel d’un om sincer /
Che tent vòlt un om è sbaia,/e tò so un fil per una paia:/
Me degh, che tott la gran paura / le che l’alma la né pura./
E siccom che lor ià scienza,/i sent a mord la su cuscienza./
Perché i sent tent i puret / affamèd e derelett,/
Ch’impreca sempra contra d’lor / chi na né pen e né lavòr /
E lè per quest, sangue de boia,/che si sent a mov ‘na foia,/
I ciapa un fred, na tremassoun/che siè in cent, in fa per oun./
…………………………………………………………….
Ma me ca sent un po’ ad dolor / perché oltre ca lavor /
Impiched ma che banchèt,/ca so costrett ad fe l’archett/
E tent al volti a faz clazion / dop e toc de campanon!/
Am toca di la verità / s’ cètta e netta com la stà. /
A vidrì che la questiòn /la va aventi e la s’impon ./
…………………………………………………………….
E per finire, da buon “zirudellaro”……
sa vlì cumprè sta canzuneta,/mittì un sold i què tla brèta/
Un sold sòl, bòia d’un mond! /sa sì tent i que d’atond !/
San vulì ca vaga via ,/acquistè sta poesia.
Saluti
G.
martedì 20 aprile 2010
Chi l'ha visto?
Il "FIORE VERDE"naturalmente! Ma,prima, solo poche parole per scusarmi del fatto che per due giorni il mio Computer ha fatto le bizze. Inutile a spiegarne bene il perchè, difficile poi è da dire .Ha fatto le bizze, e basta, come un cavallo di razza. Adesso siamo qui a parlare di tant'altro. Per prima cosa bisogna complimentarsi con l'importantissima immagine offerta da Giovanna. Una foto? Piuttosto è già un'opera d'arte, adatta alla - campagnappenaieri. Mi fa pensare a quella poesia di Pascoli, "Lavandare". --- Nel campo mezzo grigio e mezzo nero / Giace un aratro senza buoi che pare / Dimenticato nel vapor leggero...---
E, da qui,si passa subito al"fioreverde", tipico della pianura come della marina, sia nelle zone romagnole che marchigiane, e non solo del pesarese, ma via via fina a tutto l'anconetano. Forse,però,era più adatto al Paese che alla Campagna. Tuttavia il suo tempo era sempre quello della Quaresima. Si iniziava a giocarlo subito finito il Carnevale, che già, la mattina del primo mercoledì di Quaresima, all'uscita della Messa, con la testa piena di cenere i bambini aprivano il gioco, per cui ciascuno dei giocatori si era già impadronito di qulche fogliolina di bosso, dal suo bel colore verde, anche in quella stagione. Sanciti i patti, ogni ragazzo quando incontrava un amico o un'amica, doveva pronunciare la parola fatidica "fuori il verde", a cui immediatamente il compagno-a avrebbe dovuto rispondere "fuori il tuo che il mio non perde", e per documentarne l'esistenza doveva subito mostrarlo. Chi mai l'avesse perduta quella fogliolina, o dimenticata in un'altra tasca dei pantaloni, o altrove, avrebbe dovuto pagare pegno. In certe ore della giornata, il detto fatidico variava con un"fuori verde in bocca", che in quelle ore la fogliolina doveva tenersi sempre in bocca, così da poterlo documentare. Ci si divertiva così per tutta laQuaresima. Il Sabato Santo il gioco finiva, e per pagarne tutti i pegni bisognava impegnarsi a cercare un piccolo regalo che poteva essere una carruba, dei "cuciarul", ma per i ragazzini un pò grandi ci voleva una cravatta o un fazsszoletto da testa. Il giorno dopo che era Pasqua, il fioreverde era passato nel dimenticatoio ove sarebbe rimasto fino all'anno seguente. GBM
E, da qui,si passa subito al"fioreverde", tipico della pianura come della marina, sia nelle zone romagnole che marchigiane, e non solo del pesarese, ma via via fina a tutto l'anconetano. Forse,però,era più adatto al Paese che alla Campagna. Tuttavia il suo tempo era sempre quello della Quaresima. Si iniziava a giocarlo subito finito il Carnevale, che già, la mattina del primo mercoledì di Quaresima, all'uscita della Messa, con la testa piena di cenere i bambini aprivano il gioco, per cui ciascuno dei giocatori si era già impadronito di qulche fogliolina di bosso, dal suo bel colore verde, anche in quella stagione. Sanciti i patti, ogni ragazzo quando incontrava un amico o un'amica, doveva pronunciare la parola fatidica "fuori il verde", a cui immediatamente il compagno-a avrebbe dovuto rispondere "fuori il tuo che il mio non perde", e per documentarne l'esistenza doveva subito mostrarlo. Chi mai l'avesse perduta quella fogliolina, o dimenticata in un'altra tasca dei pantaloni, o altrove, avrebbe dovuto pagare pegno. In certe ore della giornata, il detto fatidico variava con un"fuori verde in bocca", che in quelle ore la fogliolina doveva tenersi sempre in bocca, così da poterlo documentare. Ci si divertiva così per tutta laQuaresima. Il Sabato Santo il gioco finiva, e per pagarne tutti i pegni bisognava impegnarsi a cercare un piccolo regalo che poteva essere una carruba, dei "cuciarul", ma per i ragazzini un pò grandi ci voleva una cravatta o un fazsszoletto da testa. Il giorno dopo che era Pasqua, il fioreverde era passato nel dimenticatoio ove sarebbe rimasto fino all'anno seguente. GBM
mercoledì 14 aprile 2010
APRILE
Siamo sempre in APRILE, di cui, un tempo, il "dolce dormire" lo dicevano soprattutto i bambini delle Elementari, che avevano più voglia di dormire che di andare a scuola.
Tempi dimenticati!? Dormono o sonnecchiano ancora i bimbi,oggi? In campagna, una volta, le mamme,quando si capiva che stava arrivando il buio,non potevano solo chiamare a gran voce figli e nipoti che, dispersi nella campagna a giocare, si dimenticavano persino i poveri mangiari del pranzo o della cene, ma spesso i bimbetti piu piccoli li dovevano andare a cercare, chi sa dove addormentati,perchè, lasciati soli a seguire i più grandicelli, in fine si sfibravano nel gioca.
Per tornare, poi, a quel che ha già detto Giovanna, chi ricorda più tanto gli scherzi dei ragazzini per il Primo Giorno di Aprile??? Un'altra tradizione ormai del tutto...andata, cioè dimenticata, scomparsa, come quella del FIORE-VERDE!!! In realtà questo fioreverde iniziava esattamente il primo giorno di Quaresima. La Quaresima è già finita da più di una settimana, ma " il fiore verde" è stato troppo importante, nel tempo di una volta per non parlarne un poco insieme, pfossimamente. GBM
Tempi dimenticati!? Dormono o sonnecchiano ancora i bimbi,oggi? In campagna, una volta, le mamme,quando si capiva che stava arrivando il buio,non potevano solo chiamare a gran voce figli e nipoti che, dispersi nella campagna a giocare, si dimenticavano persino i poveri mangiari del pranzo o della cene, ma spesso i bimbetti piu piccoli li dovevano andare a cercare, chi sa dove addormentati,perchè, lasciati soli a seguire i più grandicelli, in fine si sfibravano nel gioca.
Per tornare, poi, a quel che ha già detto Giovanna, chi ricorda più tanto gli scherzi dei ragazzini per il Primo Giorno di Aprile??? Un'altra tradizione ormai del tutto...andata, cioè dimenticata, scomparsa, come quella del FIORE-VERDE!!! In realtà questo fioreverde iniziava esattamente il primo giorno di Quaresima. La Quaresima è già finita da più di una settimana, ma " il fiore verde" è stato troppo importante, nel tempo di una volta per non parlarne un poco insieme, pfossimamente. GBM
martedì 13 aprile 2010
Parliamo di campagna
Dato che il nostro BLOG ha come argomento principale la vita di campagna , ricordiamo cos’era il mondo contadino di una volta, quello che è rimasto quasi immutato fino al tempo dei nostri nonni e che oggi non c’è più, quello legato soprattutto a storie di fatica e miseria.
In Romagna,un tempo, la terra era per lo più di grandi latifondisti e di vari ordini religiosi , accanto ai quali sopravvivevano piccoli e piccolissimi proprietari che coltivavano personalmente la campagna .
I Grandi proprietari, che in genere non erano residenti dei luoghi,davano i poderi a mezzadria a famiglie coloniche che lavoravano la terra e ne dividevano il raccolto a metà col padrone.
I patti di mezzadria , ancora all’inizio del 1900, confermano che tutti i redditi dei poderi, nonché gli utili e le perdite del capitale bestiame, vanno divisi in parti uguali tra padrone e contadino e così pure tutte le tasse, anche consorziali ,e tutta una serie di altri obblighi, come il trasporto dei raccolti ,l’accollo di manutenzioni di fossi, strade e servitù varie.
Il colono, infine, è tenuto a portare ogni anno al padrone un paniere di uva del peso di 5 kg., un sacco di foglie di granoturco, un paio di galline,di pollastri, di capponi, più 96 uova.
Se però il podere superava i 15 ettari di superficie, tutto doveva essere raddoppiato più 144 uova.
I poderi erano molto vasti e di solito vi lavoravano più fratelli insieme,le classiche famiglie patriarcali contadine ,ma bastava un anno di raccolto scarso per dover ricorrere a prestiti in natura, e perciò l’indebitamento dei coloni nei confronti del padrone era inevitabile e duraturo.
Nonostante questo, la classe mezzadrile ,benché indebitata e alla mercè dei padroni , era pur sempre in condizioni vantaggiose rispetto ai contadini senza terra, ai braccianti giornalieri e ai garzoni che vivevano in condizioni molto critiche e di pura sopravvivenza..
Il mezzadro, però, era soggetto alle imposizioni del padrone e viveva sempre nella soggezione e nella paura che il contratto gli venisse revocato.
Bastava, come nel film “L’albero degli zoccoli”, l’abbattimento di una pianta, il sospetto di vendere una parte di raccolto di nascosto, di non aver curato bene il bestiame, e si veniva cacciati, dato che il contratto era annuale, e non pochi si trovavano costretti a fare “san martino”e non sapere dove andare.
La mia famiglia di origine era a mezzadria nella Tenuta Torlonia ,nel comune di S. Mauro, e i vari nuclei famigliari vi rimasero, ininterrottamente , per quasi 130 anni,conducendo e lavorando tre vasti poderi,con i ritmi della vita dettati solo dalle stagioni,dalle vendemmie, dalle semine e dai raccolti .
Il mondo di tutti i giorni , in quel contesto,non andava molto oltre l’aia di casa , la gente di campagna ,una volta, ,aveva poche distrazioni perché tutta l’energia e tutto il tempo era dedicato ai campi e al bestiame,la loro unica fonte di sostentamento.
La vita in campagna era dura, uomini e donne lavoravano con la schiena curva “da sole a sole”,gesti ruvidi,tanta fatica e poco mangiare....era la normalità.
Un saluto.
G.
In Romagna,un tempo, la terra era per lo più di grandi latifondisti e di vari ordini religiosi , accanto ai quali sopravvivevano piccoli e piccolissimi proprietari che coltivavano personalmente la campagna .
I Grandi proprietari, che in genere non erano residenti dei luoghi,davano i poderi a mezzadria a famiglie coloniche che lavoravano la terra e ne dividevano il raccolto a metà col padrone.
I patti di mezzadria , ancora all’inizio del 1900, confermano che tutti i redditi dei poderi, nonché gli utili e le perdite del capitale bestiame, vanno divisi in parti uguali tra padrone e contadino e così pure tutte le tasse, anche consorziali ,e tutta una serie di altri obblighi, come il trasporto dei raccolti ,l’accollo di manutenzioni di fossi, strade e servitù varie.
Il colono, infine, è tenuto a portare ogni anno al padrone un paniere di uva del peso di 5 kg., un sacco di foglie di granoturco, un paio di galline,di pollastri, di capponi, più 96 uova.
Se però il podere superava i 15 ettari di superficie, tutto doveva essere raddoppiato più 144 uova.
I poderi erano molto vasti e di solito vi lavoravano più fratelli insieme,le classiche famiglie patriarcali contadine ,ma bastava un anno di raccolto scarso per dover ricorrere a prestiti in natura, e perciò l’indebitamento dei coloni nei confronti del padrone era inevitabile e duraturo.
Nonostante questo, la classe mezzadrile ,benché indebitata e alla mercè dei padroni , era pur sempre in condizioni vantaggiose rispetto ai contadini senza terra, ai braccianti giornalieri e ai garzoni che vivevano in condizioni molto critiche e di pura sopravvivenza..
Il mezzadro, però, era soggetto alle imposizioni del padrone e viveva sempre nella soggezione e nella paura che il contratto gli venisse revocato.
Bastava, come nel film “L’albero degli zoccoli”, l’abbattimento di una pianta, il sospetto di vendere una parte di raccolto di nascosto, di non aver curato bene il bestiame, e si veniva cacciati, dato che il contratto era annuale, e non pochi si trovavano costretti a fare “san martino”e non sapere dove andare.
La mia famiglia di origine era a mezzadria nella Tenuta Torlonia ,nel comune di S. Mauro, e i vari nuclei famigliari vi rimasero, ininterrottamente , per quasi 130 anni,conducendo e lavorando tre vasti poderi,con i ritmi della vita dettati solo dalle stagioni,dalle vendemmie, dalle semine e dai raccolti .
Il mondo di tutti i giorni , in quel contesto,non andava molto oltre l’aia di casa , la gente di campagna ,una volta, ,aveva poche distrazioni perché tutta l’energia e tutto il tempo era dedicato ai campi e al bestiame,la loro unica fonte di sostentamento.
La vita in campagna era dura, uomini e donne lavoravano con la schiena curva “da sole a sole”,gesti ruvidi,tanta fatica e poco mangiare....era la normalità.
Un saluto.
G.
sabato 10 aprile 2010
G. VILLA
Poichè siamo in Aprile, Giovanna si è ricordata del grande zirudellaro Giustiniano Villa, morto, poco più che settantenne, nel mese di Aprile. Come racconta, e certo racconterà ancora Giovanna, Villa fu uno dei più grandi cantori della Romagna contadina del secondo Ottocento. Le sue non erano poesie, ma cante, come si diceva nell'antica letteratura, ovvero "zirudele" come si diceva nel dialetto popolare della Romagna. Moltissime delle sue poesie Villa le faceva stampare in varie delle tipografie locali, per poi venderle nei mercati e nelle fiere,a uno o due baiocchi, la moneta povera di allora. In suo onore e a sua memoria, nel paese natale, San Clemente, sulla valle del fiune Conca, ogni anni viene indetto un Premio di Poesia dialettale, articolato in due sezioni, una di poesia, l'altra di zirudela. Il termine per la presentazione dei lavori é stabilita entro la fine di questo mese di Aprile. I lavori devono essere inviati al Comune di San Clemente (RN) , oppure indirizszati al Coordinatore del Premio, Claudio Casadei, Sant'Andrea in Casale di San Clemente (RN). Inviateli subito che ci sono anche ricchi ed artistici premi, oltre a divertirsi col dialetto , insieme. GBM
giovedì 8 aprile 2010
Le "zirudèle" di Giustiniano Villa.
Giustiniano Villa, il più famoso poeta dialettale romagnolo, nasce a S. Clemente il 21 settembre 1842 e muore a Rimini il 23 aprile 1919.
Fu poeta e cantastorie, con una rara abilità a mettere in rima ballate e “zirudelle”, proseguendo la tradizione dei “folari”,che fin dai tempi antichi passavano di casa in casa , in inverno ,ospitati per intrattenere le genti nelle lunghe veglie,o si ritrovavano nelle fiere e nei mercati a declamare le loro storie.
A Villa le zirudelle venivano immediate, con grande facilità e altrettanto spontaneamente le recitava con grande spasso degli spettatori nelle piazze del circondario e nelle fiere di città e di campagna.
Queste storie avevano per lo più come sfondo il mondo contadino, rapporti tra padroni e mezzadri ,ma anche temi politici e di denuncia contro le ingiustizie e le sofferenze dei più poveri.
Fondamentale era l’abilità del cantastorie nel declamare le zirudelle ,in quanto più riusciva a coinvolgere il pubblico , più aveva speranza di vendere i componimenti,stampati su fogli volanti ,che la gente si portava poi a casa per leggerli a famigliari e amici.
Il 23 aprile ricorrerà il novantunesimo dalla sua morte e nell’attesa di ricordarlo anche in quell’occasione, anticipiamo una sua zirudella, : essendo molto lunga, ne trascrivo l’inizio, nella quale racconta anche un po’ della sua vita, e la parte finale.
La lotta per l’esistenza.
Me a so ned a S.Clement /t’un castel che anticament /
E fu fat di Malatesta ,/a discend da zenta onesta /
sin ma det una busia, /a riteng però clan sia /
perché i mi i na mes insein /né pusion e né quatrein /
che sa fem la riflession / i più svelt e i più birbon /
chin temeva del demonie /ia lassè un bon patrimonie ;/
Iavrà e pedre da Berlich / i fiol che rest, ma iè tut ricch./
I mi i ma las poc capitel/ a ereditai at che castel /
una casaza tutta guasta ,/per mi us la sarea basta /
senza andè a rotta de col /a t’un ent sit a paghè e nol /
ma chènta, sona , bev e magna / at chi sit poc es guadagna,/
se mestier de calzoler /in poc temp a io fat per./
A provai da vend e vein /per salvèm un po’ d’quattrein/
allora prima an ni so scap,/a ho armèss botta, vein e tap./
Zenza nid, senza un valon/a fec una risoluzion …/
a diss:sarà quel che sarà!/a voi andè t’una zittà,/
ed infat a io indvinè /da pu che a Rimin a so andè/
am la pas com un sovran ,/ a stagh i là te borgh ad d’ S.Zvan/
sora l’Evsa vsen e pont /e t’un palaz cha pèr un cont………
……………………………………………………………..
Me a voi dè un avertiment / mi bagarein, mi pussident,/
si fuss enca trenta milla, / chi sarcorda chel dis Villa:/
quand e tribula al budel / an riga drett anca e zarvèl,/
chi staga in gamba ben attent,/ cla ni vaga malament!/. G. Villa.
Saluti.
Giovanna.
domenica 4 aprile 2010
Pasqua
Tantissimi auguri di una Pasqua lieta e serena, tranquilla e gioiosa., anche se piove e piove,come voleva la canzone di Modugno. Ma...si può ben altrimenti rispondere..." Le goccie cadono, ma che fa? se ci bagnamo un po'..."E' vero..."..le scarpe fan cic, ciac....",ma ci aveva ben avvertiti la Tradizione..." Se rer la Domenica delle Palme piove, a Pasqua c'è il sole! Ma,attenti...che se per le Palme c'è il sole, a Pasqua è tutta pioggia." Alla Tradizione bisogna farci attenzione.
Ed ora, carssimi amici bloggisti;- G. e forse anche l'altra G. si prenderebbero qualche giorno di vacanza, per cui...voi potete sbizzarrirvi, liberi, come volete!!! A presto. Salutissimi GBM
Ed ora, carssimi amici bloggisti;- G. e forse anche l'altra G. si prenderebbero qualche giorno di vacanza, per cui...voi potete sbizzarrirvi, liberi, come volete!!! A presto. Salutissimi GBM
sabato 3 aprile 2010
La pioggia d'aprile
“L’aqua d’avròil l’è l’òr zantòil” “Avròil tot i dè un baroil” “Marzo piovi piovi, april non cessar mai…”il richiamo alla pioggia di questi proverbi serve quasi da scongiuro, dato che la campagna in questo periodo ha bisogno della pioggia per far crescere i raccolti e sviluppare fiori e gemme.
Come ha scritto Grazia nel racconto delle caprette, marzo si è fatto imprestare tre giorni da aprile : sono questi , insieme agli ultimi tre di marzo, quelli che i contadini di una volta chiamavano le calende estive, cioè che riguardavano il tempo nei mesi estivi.
Se in questi sei giorni vi era prevalenza di pioggia e aria fredda, si sarebbe avuta un’estate piovosa e buon raccolto, se invece era asciutto con sole o vento di bora, si poteva presagire una stagione secca con temporali improvvisi e scarso raccolto.
I contadini di una volta avevano una ulteriore prova del nove in fatto di previsioni meteo facendo attenzione ai “giorni aprilanti”: “terzo aprilante( o quarto ,in alcune zone) quaranta dì durante “,cioè se avesse piovuto in questo giorno si prospettava una primavera ricca di pioggia.
Facciamo attenzione allora al tempo di oggi e domani, appunto giorni “aprilanti”.
Anche il periodo di Pasqua ha un richiamo alla pioggia in molti proverbi:
“Se piove di Venerdì Santo, piove maggio tutto quanto” “S’u n’s bagna la Pèlma, u’s bagna al j òvi” “Non è bella la Pasqua se non cola la frasca”.
Per tutta la Domenica delle Palme c’è stato un bel sole….ieri ,Venerdì Santo, ha piovuto due orette…..,da domani chi vuole può verificare se tutti questi antichi detti possono ancora essere validi ai nostri giorni.
Saluti e auguri di Buona Pasqua.
G.
Come ha scritto Grazia nel racconto delle caprette, marzo si è fatto imprestare tre giorni da aprile : sono questi , insieme agli ultimi tre di marzo, quelli che i contadini di una volta chiamavano le calende estive, cioè che riguardavano il tempo nei mesi estivi.
Se in questi sei giorni vi era prevalenza di pioggia e aria fredda, si sarebbe avuta un’estate piovosa e buon raccolto, se invece era asciutto con sole o vento di bora, si poteva presagire una stagione secca con temporali improvvisi e scarso raccolto.
I contadini di una volta avevano una ulteriore prova del nove in fatto di previsioni meteo facendo attenzione ai “giorni aprilanti”: “terzo aprilante( o quarto ,in alcune zone) quaranta dì durante “,cioè se avesse piovuto in questo giorno si prospettava una primavera ricca di pioggia.
Facciamo attenzione allora al tempo di oggi e domani, appunto giorni “aprilanti”.
Anche il periodo di Pasqua ha un richiamo alla pioggia in molti proverbi:
“Se piove di Venerdì Santo, piove maggio tutto quanto” “S’u n’s bagna la Pèlma, u’s bagna al j òvi” “Non è bella la Pasqua se non cola la frasca”.
Per tutta la Domenica delle Palme c’è stato un bel sole….ieri ,Venerdì Santo, ha piovuto due orette…..,da domani chi vuole può verificare se tutti questi antichi detti possono ancora essere validi ai nostri giorni.
Saluti e auguri di Buona Pasqua.
G.
giovedì 1 aprile 2010
Le caprette ad Aprile
Cari Amici del -G and G Blog-, vi siete certo accorti tutti di come la tradizione ci racconti con estrema precisione le situazioni temporali, molto molto meglio di come possiamo leggere nei nostri attuali Oroscopi o Lunari. Anche quello degli "Smembar", nato nel 1849 in una delle più antiche Osterie di Faenza, quella d' Marianaza, frequentata da diversi intellettuali locali come Alfredo Oriani che, tra un bicchiere e l'altro, vi scrisse il famoso libro "La lotta politica in Italia". Ebbene neanche quel Luneri può dare informazioni così sicure come quelle dei contadini che si rifacevano agli insegnamenti della Tradizione. La Tradizione, se abbiamo guardato sempre con attenzione, ci ha precisato come quest'anno è stato Marzo, impreciso, svanitello e pazzerello, non mai affidabile. Non tanto diverso da Lui, sembra anche Aprile, almeno oggi. Già lo avete visto l'altro ieri notte, e poi anche ieri sera pieno di lampi, tuoni, fulmini, saette, e poi questa mattina c'era un bellissimo sole, poi di colpo ha piovuto forte, ma per poco, ed ora...non si capisce bene cosa voglia fare. Ed ecco che, per queste pericolose incertezze, ci avvisa la Tradizione raccontandoci de "Le tre caprette".
Una mamma capra non sapeva come dar da mangiare nei prati alle sue tre caprette che, nate da poco, non riuscivano ad andare a mangiare l'erba dei campi e dei prati dal momento che tra i freddi terribili di Febbraio era sopraggiunto il cattivo vento di Marzo con tutte le sue bizze. E la capra coi suoi tre caprettini, diventati magri-spinti, ad aspettare con ansia che arrivasse la Primavera e la buona stagione. Ma quell'anno niente da fare! Ad un momento di bel tempo, subito dopo vento e freddo, o pioggia, o persino neve, proprio come quest'Anno. Ed intanto i capretti ad attendere giorno per giorno sgomenti e con ansia che quel Marzo finisse ed arrivasse Aprile. E Marzo, che si divertiva delle angoscie dei capretti e ci rideva un sacco! Anche al 21,che allora si diceva " San Benedetto / La rondine sul tetto " ( e che ora è passato di moda, perchè San Benedetto l'han spostato a Giugno o a Luglio e le rondini non le si vede ancora girare nel cielo), insomma anche il primo giorno della Primavera non si poteva essere sicuri che arrivasse il tempo bello. Così, arrivati gli ultimi tre giorni di Marzo, mamma capra non resistette più, e si mise a belare dalla gioia dicendo a Marzo tutte le cattiverie possibili e finendo gioiosa "Te ne andrai pure Marzo cattivo, che ora arriva Aprile e noi saremo salve." Ed i capretti, gioiosi a ripetere, per tre giorni di seguito, 29,30,31, i rimproveri della mamma capra a Marzo, nell'attesa del buon Aprile. Marzo ne fu molto irritato, e peggio, per cui decise di vendicarsi contro questi sprovveduti capretti. Così andò da Aprile, un bel burlone anche lui, e riuscì, non so dire come, a prestargli i primi tre giorni, acquistando così la possibilità di permettersi, per quei 3 giorni, qualsiasi cosa. Così, passato il 31, i capretti con la loro mamma, felici ed affamati, a correre subito per i prati, ancora umidi e bagnati,ma ormai ricchi di tante erbette gustose. Non sapevano, poverelli, che la stagione, ancora per tre giorni, era marzolina, e che d'improvviso sarebbero venute varie burrasche, e che loro, improvvidi, allontantanatisi troppo dall'ovile, avrebbero potuto morirne!
I detti della Tradizione sono imprecisi per la conclusione. Alcuni lasciano pensare che i capretti pur senza penicillina gliela poterono fare, dopo però avere imparato bene la lezione dei mesi. Altri invece dicono che, visti alla fine da un pastore questi cercò di salvarli facendoli almeno subito asciugare mettendoli vicino ad un forno. I capretti però si misero troppo vicino al fuoco che alla fine ne morirono bruciati.
A questo punto la domanda da fare a tutti i lettori è la seguente: "Il pastore alla fine si mangiò i capretti insieme alla sua famiglia? Oppure seppellì i capretti e fece sì che la capra ne partorì degli altri?"
G.B.M.
Una mamma capra non sapeva come dar da mangiare nei prati alle sue tre caprette che, nate da poco, non riuscivano ad andare a mangiare l'erba dei campi e dei prati dal momento che tra i freddi terribili di Febbraio era sopraggiunto il cattivo vento di Marzo con tutte le sue bizze. E la capra coi suoi tre caprettini, diventati magri-spinti, ad aspettare con ansia che arrivasse la Primavera e la buona stagione. Ma quell'anno niente da fare! Ad un momento di bel tempo, subito dopo vento e freddo, o pioggia, o persino neve, proprio come quest'Anno. Ed intanto i capretti ad attendere giorno per giorno sgomenti e con ansia che quel Marzo finisse ed arrivasse Aprile. E Marzo, che si divertiva delle angoscie dei capretti e ci rideva un sacco! Anche al 21,che allora si diceva " San Benedetto / La rondine sul tetto " ( e che ora è passato di moda, perchè San Benedetto l'han spostato a Giugno o a Luglio e le rondini non le si vede ancora girare nel cielo), insomma anche il primo giorno della Primavera non si poteva essere sicuri che arrivasse il tempo bello. Così, arrivati gli ultimi tre giorni di Marzo, mamma capra non resistette più, e si mise a belare dalla gioia dicendo a Marzo tutte le cattiverie possibili e finendo gioiosa "Te ne andrai pure Marzo cattivo, che ora arriva Aprile e noi saremo salve." Ed i capretti, gioiosi a ripetere, per tre giorni di seguito, 29,30,31, i rimproveri della mamma capra a Marzo, nell'attesa del buon Aprile. Marzo ne fu molto irritato, e peggio, per cui decise di vendicarsi contro questi sprovveduti capretti. Così andò da Aprile, un bel burlone anche lui, e riuscì, non so dire come, a prestargli i primi tre giorni, acquistando così la possibilità di permettersi, per quei 3 giorni, qualsiasi cosa. Così, passato il 31, i capretti con la loro mamma, felici ed affamati, a correre subito per i prati, ancora umidi e bagnati,ma ormai ricchi di tante erbette gustose. Non sapevano, poverelli, che la stagione, ancora per tre giorni, era marzolina, e che d'improvviso sarebbero venute varie burrasche, e che loro, improvvidi, allontantanatisi troppo dall'ovile, avrebbero potuto morirne!
I detti della Tradizione sono imprecisi per la conclusione. Alcuni lasciano pensare che i capretti pur senza penicillina gliela poterono fare, dopo però avere imparato bene la lezione dei mesi. Altri invece dicono che, visti alla fine da un pastore questi cercò di salvarli facendoli almeno subito asciugare mettendoli vicino ad un forno. I capretti però si misero troppo vicino al fuoco che alla fine ne morirono bruciati.
A questo punto la domanda da fare a tutti i lettori è la seguente: "Il pastore alla fine si mangiò i capretti insieme alla sua famiglia? Oppure seppellì i capretti e fece sì che la capra ne partorì degli altri?"
G.B.M.
Verso Pasqua.
“Non c’è Sabato Santo al mondo,che il cerchio della luna non sia tondo.”
La Pasqua cade sempre la domenica successiva al plenilunio di primavera: quest’anno cade il 4 aprile e il plenilunio è stato il 30 marzo. E’ una delle feste “mobili” del calendario liturgico, insieme all’Ascensione e alla Pentecoste.
La Pasqua viene chiamata bassa quando cade in marzo, media nei primi 15 gg. di aprile e alta fino al 25 aprile.
Un altro detto recita: “ l’olivo benedetto vuol trovare pulito e netto”. Infatti , nella campagna le case e i campi dovevano essere puliti e svecchiati : erano le cosiddette pulizie di Pasqua dopo il lungo e fumoso inverno ,così come i cristiani dovevano purificarsi durante la Quaresima per accogliere degnamente il Cristo.
Molte e varie sono le tradizioni della Settimana Santa,: la legatura delle campane; il lungo digiuno, per i più bigotti, fino al pranzo del sabato santo;la benedizione dell’olio santo per il battesimo, nella messa del giovedi ;gli spari con i fucili e i petardi il venerdì per “uccidere Barabba “; la benedizione delle uova per il pranzo di Pasqua….
La mia nonna, e tante donne del suo tempo, il sabato Santo seminava legumi e ortaggi nell’orto e anche diversi tipi di fiori ,perché sarebbero cresciuti senza malattie.
Una tradizione che ha origini molto antiche è legata all’usanza della “gnacra”: questo è uno strumento che nei giorni in cui le campane erano legate, serviva a scandire le ore dell’inizio delle messe . Era di legno duro, squadrato, con un’impugnatura e due batacchi di metallo che rimbalzando sul legno producevano un suono forte e ritmico che nel silenzio dei borghi e della campagna di una volta si sentiva da lontano, chiamando i fedeli alle funzioni.
Mio marito stesso, da ragazzo, veniva mandato a questo compito dall’allora parroco del nostro paese, e a S. Mauro questa usanza si è mantenuta fino alla fine degli anni “50, quando ormai si era smessa in tutto il circondario.
La nostra gnacra purtroppo è andata perduta o rubata, mentre una molto bella sembra che l’abbiano ancora nella Chiesa di Castelvecchio.
Buona Pasqua.
Giovanna.
La Pasqua cade sempre la domenica successiva al plenilunio di primavera: quest’anno cade il 4 aprile e il plenilunio è stato il 30 marzo. E’ una delle feste “mobili” del calendario liturgico, insieme all’Ascensione e alla Pentecoste.
La Pasqua viene chiamata bassa quando cade in marzo, media nei primi 15 gg. di aprile e alta fino al 25 aprile.
Un altro detto recita: “ l’olivo benedetto vuol trovare pulito e netto”. Infatti , nella campagna le case e i campi dovevano essere puliti e svecchiati : erano le cosiddette pulizie di Pasqua dopo il lungo e fumoso inverno ,così come i cristiani dovevano purificarsi durante la Quaresima per accogliere degnamente il Cristo.
Molte e varie sono le tradizioni della Settimana Santa,: la legatura delle campane; il lungo digiuno, per i più bigotti, fino al pranzo del sabato santo;la benedizione dell’olio santo per il battesimo, nella messa del giovedi ;gli spari con i fucili e i petardi il venerdì per “uccidere Barabba “; la benedizione delle uova per il pranzo di Pasqua….
La mia nonna, e tante donne del suo tempo, il sabato Santo seminava legumi e ortaggi nell’orto e anche diversi tipi di fiori ,perché sarebbero cresciuti senza malattie.
Una tradizione che ha origini molto antiche è legata all’usanza della “gnacra”: questo è uno strumento che nei giorni in cui le campane erano legate, serviva a scandire le ore dell’inizio delle messe . Era di legno duro, squadrato, con un’impugnatura e due batacchi di metallo che rimbalzando sul legno producevano un suono forte e ritmico che nel silenzio dei borghi e della campagna di una volta si sentiva da lontano, chiamando i fedeli alle funzioni.
Mio marito stesso, da ragazzo, veniva mandato a questo compito dall’allora parroco del nostro paese, e a S. Mauro questa usanza si è mantenuta fino alla fine degli anni “50, quando ormai si era smessa in tutto il circondario.
La nostra gnacra purtroppo è andata perduta o rubata, mentre una molto bella sembra che l’abbiano ancora nella Chiesa di Castelvecchio.
Buona Pasqua.
Giovanna.