mercoledì 29 settembre 2010

E' ARRIVATO L'AUTUNNO


MI SCUSO CON I LETTORI E CON QUANTI COLLABORANO AL NOSTRO BLOG MA CON LE FOTO E LA LORO GIUSTA COLLOCAZIONE HO ANCORA DELLE DIFFICOLTA'.

martedì 28 settembre 2010

La scuola di tessitura a telaio di Torriana.



A Torriana, esiste da alcuni anni un laboratorio artigianale di tessitura a telaio orizzontale , si chiama:”Filo di Penelope…filo del mondo”
Nato inizialmente nell’ambito dei laboratori della scuola elementare del Paese , ha poi usufruito dei finanziamenti della provincia e ora tiene corsi di tessitura grazie alla disponibilità di 6 veri telai orizzontali e altri più piccoli da tavolo, per chi voglia accostarsi a questa arte femminile così antica.
I corsi inizieranno a fine Ottobre nei locali messi a disposizione del Comune di Torriana in Via Roma,e per chi volesse ulteriori info.si consiglia di rivolgersi all’URP., l’ufficio per le relazioni con il pubblico.
Invece chi volesse vedere i lavori realizzati dalle allieve del lab.di tessitura, a Rimini, nel Palazzo del Podestà , li potrà ammirare durante la Mostra “Rimini Ricama”, che si terrà dal 2 al 10 ottobre, un allestimento davvero suggestivo che spazia tra tessitura, ricamo, pizzi, e tutta la vasta gamma dei lavori femminili.

ARRIVA L'AUTUNNO

L'Autunno, quello di una volta in campagna, aveva certe giornate molto pesanti e dense di preoccupazioni. In Ottobre c'era da fare non solo e non tanto per la semina, ma prima e più ancora per l'aratura, e poi per l'erpicatura, ove si doveva fare in modo che il terreno si sminuzzasse con " e stirpatour" e poi con "l'erpice" in modo che la terra diventasse finissima. Per la semina c'erano sempre allarmi e paure per via del tempo, guai se pioveva ma guai se il terreno era secco. Così era sempre bene rifarsi ai Santi, che per il 13..." San Gaudenz, taca i bu e mand'inenz", mentre per il 20..." San Simoun, staca i bu da e tmon", anche se poi non era sempre vero o per chi aveva troppo terreno o per chi aveva pochi capi da lavoro.
Ma in Ottobre c'era anche da finire con la vendemmia, e se pioveva era anche quello un gran problema, un lavoraccio con quel fango che rendeva tutto più difficile. Col sole invece era bello riempire d'uva i cesti di vimini, e se c'era un giovanotto vicino a una bella ragazza il cesto, per andarlo a vuotare, glielo prendeva lui perchè pesava.Per la gioventù quelli della raccolta dell'uva erano i momenti degli scherzi, delle risate, delle cante, e qualche volta ne nasceva l'amore, così che dopo le vecchie maligne e maldicenti se lo raccontavano..." u la scarzeva e pu u la tucheva". Poi con "e broz" tirato dalle bestie, nel portico della casa venivano fatte mettere le casse, che pesavano, e le ragazze, quelle che ci tenevano, aiutavano a scaricarle, quelle casse, per far vedere ch'erano brave. Se l'uva quell'anno era tanta "us tuleiva gl'ovri", si facevano venire gli operai, che a pagarli toccava al contadino. Un po' alla volta si buttava l'uva ne la "mnarola", che stava sopra il tino e via via la si pigiava con i piedi nudi, ma lavati prima nell'ebi. Per far fermentare il mosto, "par fel bulì cl'elza e capel dal mnaza" ch'erano i raspi i vinaccioli e le bucce, coi mastelloni di legno si buttava il mosto nel tino, e dei tini il contadino ne poteva avere più o meno da uno a tre. Dopo circa una settimana di bollitura il vino si versava nelle botti, ad aspettare il travaso fino a metà Novembre.

lunedì 27 settembre 2010

Inaugurato il Museo Mulino Sapignoli.



Gran bella giornata ,ieri, a Poggio Berni, per l’inaugurazione del Museo Mulino Sapignoli.
Questo mulino, molto antico e rimasto attivo fino agli anni ’80,dopo anni di restauro è stato restituito alla collettività sotto forma di Museo, per mantenere la memoria di un’arte vecchia di secoli.
Il restauro è iniziato nel 2003,e la spesa di un milione di euro è stata finanziata per metà dalla Regione che ha creduto al progetto dell’amministrazione comunale e , vedendo il risultato, sicuramente sono stati soldi impiegati bene.
Il mulino Sapignoli, come ha detto il Sindaco Amati, è il portale d’ingresso della via dei 165 mulini presenti lungo la Marecchia fino a Pennabilli.
Luoghi di lavoro , di scambi, di traffici ,di storie e folletti,il mulino nel tempo ha avuto grande importanza , il mugnaio, come ci ha detto ieri un signore che ancora fa’ questo lavoro, una volta era importante quanto e come il Sindaco.
Nel mulino, riportato alla vita, le meccaniche ora sono funzionanti e ieri, grazie alla forza dell’acqua , una delle due macine in pietra girava, facendo scendere la farina nel cassone ,e chissà quante persone ha visto passare davanti a se e quante storie potrebbe raccontare ……

sabato 25 settembre 2010

26 settembre 1944, la linea Gotica si ferma a S. Mauro.



Il mattino del 26 settembre 1944, i battaglioni canadesi , insieme a truppe neozelandesi ,appoggiati dai carri armati, attraversano il Rio Salto in direzione di San Mauro.
Qui si scontrano con i Tedeschi che avevano occupato il Paese e il combattimento,furioso, avviene in pieno centro ,di casa in casa , anche con micidiali scontri all’arma bianca e con gravi perdite da ambo le parti.
Gli Alleati riescono a proseguire l’avanzata mentre i cacciabombardieri e l’artiglieria pesante intervengono a bombardare le linee tedesche.
Tra il 27 e il 28 settembre, dopo che una intera compagnia alleata viene annientata dai Tedeschi, inizia il grande attacco che segna la sorte dell’antico ponte romano di Savignano, fatto saltare in aria dai tedeschi in ritirata.
L’asse San Mauro -Savignano resta fra due fuochi sotto una pioggia di granate e i bombardamenti continuano per giorni sino all’offensiva finale , sferrata in ottobre : il 20 e 21 gli alleati libereranno Cesena.
Savignano, Gatteo e San Mauro subiscono notevoli perdite di vite umane e la distruzione di gran parte di case, ponti e strade: a San Mauro il 90 per cento del paese non esisteva più, così pure Savignano che ebbe anche un centinaio di morti.
La campagna fu devastata, stalle e abitazioni saccheggiate.
Il 26 settembre , nei pressi di Villa Torlonia, un bombardiere sgancia due bombe: una colpisce una postazione tedesca, l’altra centra in pieno la casa del mezzadro Domeniconi nel podere Fabbrona e uccide 23 persone, 13 delle quali componenti della stessa famiglia patriarcale sammaurese.
Alcuni giorni prima altre tre persone erano rimaste uccise nel podere Cima per lo scoppio di una granata e altri morti si ebbero in Paese .
Tutte le case coloniche della tenuta Torlonia poste nei poderi confinanti con il fiume, dove i tedeschi si erano arroccati, vennero completamente distrutte e molte altre danneggiate.
La popolazione civile venne fatta sfollare precipitosamente , caricata sui camion dagli alleati ed evacuata a Viserba : da qui trasportata perlopiù nelle Marche, come i miei nonni e tutta la famiglia, che quando poterono tornare, dopo alcuni mesi, trovarono tutto distrutto: casa, stalla, campi, viti...non era rimasto più niente.

mercoledì 22 settembre 2010

Poggio Berni inaugura il Museo "Mulino Sapignoli".



Domenica 26 settembre, alle 15.30 a Poggio Berni viene inaugurato il Museo “Mulino Sapignoli” , il nuovo polo culturale che alla biblioteca già ospitata al primo piano dell’edificio, aggiunge al piano terra il Museo dedicato all’antica arte molitoria.
Infatti la presenza dei mulini a Poggio Berni è veramente molto antica, provata da un documento conservato nell’archivio storico di Sant’Arcangelo del 1588 ,dove sono dichiarati i nomi di ben 5 mulini poggesi , un numero considerevole per le piccole dimensioni del territorio e tutti e 5 rimarranno attivi nel corso del tempo fino a pochi decenni fa.
Acqua, pietra e grano ….per secoli un lavorio continuo , e poi in pochi decenni la totale dismissione.
Infatti, come si può leggere nel libro “i mulini della Valmarecchia, di Luca Morganti e Mirco Semprini, nel rilievo compiuto per l’IGM del 1937- per i comuni di Torriana e Verghereto, per le province di Arezzo e Pesaro, per la R. di San Marino, - e del 1929 per i comuni riminesi,- erano ancora funzionanti 84 mulini.
Di questi , in poco più di 60 anni ben 81 cessano l’attività.
Ed ecco dunque l’importanza di un Museo che mantenga viva la memoria della tradizione molitoria del paese di Poggio Berni e dell’intera Valmarecchia, un territorio
nel quale gli autori del libro già menzionato, hanno censito ed identificato ben 165 mulini ad acqua, tutti del tipo semplice a ruota orizzontale.
Appuntamento dunque a domenica a Poggio Berni per la visita al Museo allietati da buona musica popolare e da un buffet gastronomico locale.

domenica 19 settembre 2010


Cristo al torchio o Cristo Vignaiolo, autore ignoto del XVI Sec.Matelica Chiesa di Sant'Agostino

giovedì 16 settembre 2010

La vendemmia nella Tenuta Torre.



Nella grande Tenuta Torre dei Principi Torlonia, a San Mauro, la vendemmia era uno dei raccolti più importanti e redditizi.
La raccolta dell’uva nei 140 poderi si faceva con 5.000cesti di vimini,e i carri andavano e venivano dai filari al grande cortile interno del Palazzo Padronale, dove si scaricava l’uva in attesa di essere pigiata.
Nel Palazzo esisteva uno stabilimento enologico , dove l’uva veniva pesata e ammostata a mezzo di pigiatoi meccanici : i locali di pigiatura , uno per le uve bianche l’altro per le uve rosse, erano costituiti da tre grandi magazzini sovrapposti alle tinaie.
Dal primo si scendeva esternamente nell’ampia corte,dagli altri ,mediante scala di ferro a chiocciola, si scendeva nelle tinaie.
Nelle vaste cantine esistevano due locali speciali destinati a due botti della capienza di 500 ettolitri l’una, oltre a 26 botti di quercia di Slavonia della capacità ognuna di 75 ettolitri.
Inoltre vi erano altre 73 botti di piccola dimensione dai 12 ai 20 ettolitri e una bottiglieria capace di contenere 50.000 bottiglie.
Nei vigneti bassi impiantati nel corso degli anni si coltivavano i seguenti vitigni: fra i rossi ,Sangiovese, Canaiolo o Cagnina, Malbek,Cabernet, Verdot; tra i bianchi ,Biancale, Trebbiano, Sauvignon.
La produzione vinicola della Tenuta, a fine ‘800 ,era già diventata famosa, era la più importante del versante adriatico e veniva venduta sia sul mercato interno che all’estero in Paesi come le Indie Olandesi, in Svizzera, in Germania e in Brasile.
Inoltre, famoso e apprezzato era lo spumante prodotto con uve bianche selezionate , lo “Champagne La Tour”, del quale era grande estimatore il poeta Giovanni Pascoli, che se ne faceva spedire alcune casse ogni anno,in ogni città dove era chiamato ad insegnare.

martedì 14 settembre 2010

La tessitura a telaio manuale.


Ancora fin verso la prima guerra mondiale, in quasi tutte le case coloniche romagnole si praticava la tessitura a telaio manuale, un’attività esclusivamente femminile,nella quale le donne mostravano la loro abilità e fantasia tessendo per la famiglia coperte, tela per biancheria e stoffe per camicie e vestiti .
Strumento per la tessitura era il maestoso e pesante telaio orizzontale di legno che in alcune case più ampie era alloggiato in una stanza apposita, “ la cambra de tlèr”, a pianterreno,altrimenti si smontava a fine inverno custodendolo in cantina e si rimontava nella grande cucina al momento opportuno.
Infatti alla tessitura erano per lo più dedicati i mesi della cattiva stagione e per tutto l’inverno le donne filavano, dipanavano e tessevano aiutate dalle figlie ancora bambine, che imparavano così questa arte secolare.
Nel 1900, secondo i dati raccolti dal Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio del tempo, erano attivi nella provincia di Forlì ben 6641 telai manuali casalinghi.
Quanto alle materie prime impiegate, lino e canapa erano quelle più usate, soprattutto la canapa, coltivata in tutti i poderi mezzadrili della Romagna ,che da sola alimentava il lavoro di migliaia di telai.
La parte di canapa ad uso padronale veniva venduta grezza :intere partite prendevano la via dell’Inghilterra per fabbricare le vele delle sue navi mercantili.
La parte che spettava al mezzadro ,invece,veniva quasi esclusivamente tessuta e usata per le necessità famigliari e solo alcune famiglie più laboriose o bisognose tessevano per il mercato locale: tela grezza per le vele dell’Adriatico, per i sacchi del grano, per il rigatino con il quale si confezionavano vestiti da lavoro.
Col telaio manuale si otteneva una tela di una determinata larghezza , dai 60 agli 80 cm.,mentre la lunghezza praticamente non aveva limiti,anche se i “Torselli”, i rotoli tessuti , misuravano di solito dai 20 ai 40 metri e più ,e per fare i lenzuoli si dovevano cucire i teli appaiati con un punto spina piatto fittissimo e molto resistente.
La tela però, una volta finita, richiedeva un’ulteriore fatica, doveva essere sbiancata: durante l’estate ,allora,in più riprese,i rotoli si lavavano nel ranno caldo con la cenere, si portavano a sciacquare al fiume e si stendevano in lunghe file al sole, finchè la tela diventava bianca bianca,di un “ biènc scanadè” , cioè rilucente e splendente , orgoglio di ogni arzdòra che si rispetti e requisito indispensabile anche per i capi del corredo più povero.

giovedì 9 settembre 2010

Conseguenze della pellagra, malattia della miseria.


La diffusione del mais come alimento di base, provocò l’insorgere di una tremenda malattia da carenza nutrizionale chiamata pellagra.
In Italia, soprattutto nelle zone settentrionali e appenniniche , colpiva in maggioranza i contadini e i braccianti : già nel 1830 in Lombardia vi erano più di 20.000 pellagrosi, che nel 1856 superavano i 38.000 ;fra il 1887 e il 1910 causò 86.000decessi ufficiali e altri 20.000 tra il 1920 e il 1940.
Senza contare l’aumento dei casi di pazzia , a cui questa malattia portava, tanto che alla fine dell’800, nel manicomio femminile di Venezia su 500 ricoverate più di due terzi lo erano a causa della pellagra.
In sostanza era una malattia della miseria e del cattivo cibo, soprattutto per l’esclusivo e insufficiente consumo di polenta e acqua, e quest’ultima non sempre sana e potabile.
A peggiorare le cose , la polenta era spesso fatta con granoturco guasto dall’umidità per mancanza di forni per l’essicamento e di ventilatori , e quindi fermentato o addirittura germogliato in depositi mal riparati.
Duro lavoro per 10, 12 ,a volte 14 ore al giorno ,cibarsi poco e male con prevalenza di polenta mattina, mezzogiorno e sera quando andava bene ,abitare case fredde e malsane, portava in gran numero ad ammalarsi e spesso a morire all’ospedale dei pazzi.
La pellagra è una malattia lenta e lunga, con sintomi che durano alcuni mesi e che ripetendosi di continuo esauriscono il malato irreparabilmente con dolore al capo e alla schiena , formicolio alle estremità, bruciore allo stomaco, calo della vista e dell’udito, tremori alle articolazioni.
Insomma, dietro alla pellagra stava una profonda miseria e una drammatica questione sociale, che portò via via all’aumento progressivo dell’emigrazione di famiglie intere di disperati, che cercavano all’estero una migliore speranza di vita.

lunedì 6 settembre 2010

La spannocchiatura del granturco.


Nella campagna di un tempo, alla fine dell’estate si raccoglievano le pannocchie del granturco e si portavano sull’aia per liberarle dalle foglie che lo avvolgevano.
La spannocchiatura veniva fatta nelle fresche sere di settembre, con l’aiuto di parenti e vicini che si scambiavano il lavoro da una famiglia all’altra ed era un pretesto anche per corteggiamenti e scherzi grossolani.
dure servivano come foraggio, le più interne,sottili e delicate,per imbottire i sacconi che Le pannocchie venivano spogliate delle foglie che le ricoprivano aiutandosi con un punteruolo di legno “e’sfrocc ,e poi divise a seconda della grossezza: quelle esterne e fungevano da materassi.
Il materasso della vecchia casa contadina, ma spesso anche di quelle di città, era un sacco di tela robusta con due apposite aperture come due grosse asole, nelle quali si infilavano le mani per sprimacciare e dare aria alle foglie ben pigiate che durante la notte erano state schiacciate dal peso dei corpi.
Ogni anno le imbottiture venivano cambiate e nei mercati se ne trovavano a sacchi in abbondanza ,anche nei contratti di mezzadria era definita una certa quantità di foglie da destinare al padrone.
Le pannocchie così sfogliate venivano stese al sole per farle seccare bene,in attesa “de sgranadòur” ,un trabiccolo che passava di casa in casa e che liberava i chicci dai torsoli, i “panòc”, con le cime dei quali si facevano tappi per fiaschi.
Nei campi rimanevano i grossi gambi, “i gambarèun”,che venivano scalzati con la zappa , lasciati seccare e raccolti in fascine.
Tritati servivano come foraggio di emergenza oppure si mettevano sotto la legna,insieme ai panocc, per accendere il fuoco.
Del granoturco non andava a male niente, era un prodotto del quale il contadino faceva tesoro e considerato dalla povera gente alla stessa maniera del grano.
La farina di granoturco la usavano per fare la polenta in qualunque stagione , anche il pane e la piadina erano fatti con farina gialla , e purtroppo questo monotono regime alimentare causò ,nella seconda metà dell’800, molti episodi di pellagra , la malattia dei poveri, che spesso portava alla morte e alla pazzia.
Ma questa è un’altra storia ……

venerdì 3 settembre 2010

Caveja della campagna imolese




L'immagine l'ha spedita Franco che ha assicurato che ne farà o ne ha già fatto, oggetto di commento. Speriamo bene

giovedì 2 settembre 2010

La caveja romagnola.


La caveja è il simbolo più rappresentativo della Romagna, ma non tutti i romagnoli ne conoscono il significato e l’uso che se ne faceva,e molti non ne hanno mai vista una dal vero.
La caveja è in pratica un grosso cavicchio di ferro:decorata con anelli “musicali “e figure simboliche ( gallo, sole, croce, colomba ecc) aveva la funzione di bloccare il giogo dei buoi al timone dell’aratro o del carro, in modo da impedirne l’uscita in caso di strattoni da parte delle bestie.
Nella parte superiore aveva le decorazioni simboliche che abbiamo detto mentre ai lati aveva due o più anelli,e questi fungevano sia da ornamento che come campanello durante i viaggi notturni,quando il contadino faceva il lungo trasporto dei raccolti ai vari magazzini o alla casa del padrone.
Nel silenzio della notte, potevano esserci anche più carri in viaggio, ma ogni caveja produceva un suono diverso e le orecchie allenate dei contadini riuscivano a riconoscere , stando sull’aia del casolare, il proprio carro che ritornava.
La caveja una volta era l’orgoglio del contadino romagnolo, la chiamavano “la caveja dagli anell” o “caveja cantarena” e ci tenevano che fosse ornata e ben fatta.
Ogni caveja era un pezzo unico,costruita da abili artigiani e fabbri che ne tempravano il ferro a più riprese e ne ottenevano diverse sonorità:era campanello e clacson di giorno e fanale di notte.
Quando viaggiava coi carri e i birocci per le strade bianche ,l’uomo sul suo mezzo sentiva se davanti aveva un altro contadino in viaggio ,lo sentiva da lontano quando gli veniva incontro dalla parte opposta e gli dava voce ancora prima di vederlo.
Ma il mondo all’improvviso ha preso a correre a gran velocità e una volta cessati i lenti trasporti con i buoi, la caveja ha finito la sua funzione ed è diventata un pezzo da museo o di ornamento di tavernette,insieme a tutti gli innumerevoli oggetti della civiltà contadina .