giovedì 28 ottobre 2010

1° novembre,Capodanno dei Celti.


L’avvicendarsi delle stagioni, dei cicli solari, il periodico ripetersi dei fatti della natura,richiamano da sempre ad una dinamica circolare del tempo.
Il cerchio finisce e ricomincia in un mordersi la coda, e proprio il serpente che si morde la coda rappresenta il tempo periodico e l’anno stesso (annus significa anche cerchio).
Ma quale era nel cerchio il punto di fine-principio ,cioè quello del Capodanno?
Questa data non era la stessa per tutti,e non lo è stata fino a tempi relativamente recenti.
Alcune popolazioni ponevano il Capodanno nel periodo del solstizio invernale, altre all’arrivo della primavera,altre al momento di ricondurre il bestiame ai villaggi….
L’antico Capodanno Celtico per esempio, si celebrava agli inizi di novembre,un rito che sopravvive ancor oggi presso popoli anglosassoni con la festa di Hallowen, mentre quello romano iniziava il 1 marzo.
Si deve a Giulio Cesare se,oltre ad alcune correzioni e all’introduzione dell’anno bisestile,si spostò definitivamente e legalmente il Capodanno dal 1 marzo al 1 gennaio.
Il calendario giuliano venne poi adottato dai cristiani , ma una certa confusione per quanto riguardava il Capodanno restò: variava da Stato a Stato, da città a città,chi il 1 marzo,chi il 25 marzo, chi il 25 dicembre,chi il giorno di Pasqua o appunto il 1 gennaio, la data alla quale le classi popolari restarono principalmente fedeli.
In Romagna sono rimasti segni di queste varietà di Capidanno in alcuni usi giuridico-tradizionali: nei contratti dei garzoni di campagna , per esempio,che scadevano il 25 marzo,o quelli della mezzadria che invece si chiudevano a San Martino, 11 novembre, nel periodo di chiusura del capodanno celtico, che cadeva il 1 novembre.
I Celti, popolo di agricoltori e allevatori,sono venuti e sono rimasti in territorio romagnolo lasciandone traccia in molte usanze e tradizioni e novembre ,per loro faceva da spartiacque fra un anno agricolo e l’altro, con la fine dei raccolti e l’inizio delle semine: il grano è stato appena seminato, è”sceso negli inferi” nel cuore della terra e inizia il suo lento cammino verso la futura germinazione.
Per questo i Celti festeggiavano il loro Capodanno ritrovandosi nei cimiteri fra canti e libagioni,per rappresentare l’incontro dei vivi, che devono morire, e dei morti , che in quella sera di passaggio da un anno all’altro erano autorizzati a ritornare sulla terra in comunione con loro.

mercoledì 27 ottobre 2010

le dolci giuggiole


La pianta del giuggiolo in passato era molto coltivata e nelle nostre campagne romagnole ne rimangono vecchi e splendidi esemplari , posti a ridosso di muri e di ruderi, conferendo a questi luoghi un fascino particolare.
Il giuggiolo è stato introdotto in Italia dal Medio Oriente per opera del console romano Sesto Papinio , all’epoca dell’Impero di Augusto.
Ma la sua terra d’origine è la Cina, dove ancora oggi le giuggiole costituiscono un importante ingrediente per la lavorazione di pani , dolci e bevande.
Specie rustica ed estremamente frugale,, di facilissima coltura , si adatta a tutti i terreni , anche sabbiosi e calcarei ; va posta a dimora in pieno sole , al riparo dai venti di tramontana, possibilmente ,come si fa da sempre, a ridosso dei muri.
L’unico inconveniente ,se vogliamo ,è di essere pianta spinosissima .
È molto longevo ma di crescita estremamente lenta, occorrono ben più di dieci anni dall’impianto prima che dia frutti,ed è per questo che presso i vivai il costo di un esemplare adulto raggiunge prezzi elevati. Attualmente però esistono in commercio varietà a frutti grossi che entrano in produzione in un tempo relativamente breve.
Il suo legno è durissimo ma di scarso impiego, in quanto assai raramente il tronco raggiunge le dimensioni adatte per una qualche utilizzazione .Però un tempo nelle campagne veniva usato per costruire piccoli strumenti musicali a fiato; vale la pena citare il Pascoli che in una sua poesia dice: “ Festoso strepito de’ flauti di giuggiolo”.
Le giuggiole,dalla polpa biancastra e zuccherina,hanno un elevato contenuto di proteine, zuccheri,vitamine e notevoli proprietà medicinali ,lenitive, emollienti e antinfiammatorie ;se ne fanno marmellate,conserve e sciroppi
Malgrado ciò,sono diventate in molti modi proverbiali sinonimo di cosa di poco conto come per esempio:“ E’ un lavoro impegnativo,altro che giuggiole!”,oppure: “E’un giuggiolone”, si dice quando uno è considerato un po’ingenuo.
Eppure dalle giuggiole qualcosa si ricavava anche una volta, se nel registro dare-avere della Tenuta Torre dei Torlonia del settembre 1847 ,redatto all’epoca dall’amministratore Giovanni Pascoli, prozio del Poeta,possiamo leggere :“ Ricavati da giuggiole raccolte nel cortile del Palazzo e vendute a diversi lire 1,25”.
E non è nemmeno poco, visto che la biada per i cavalli del fattore, comprata a Rimini ,per lo stesso mese di settembre,è costata lire 1,20.

lunedì 25 ottobre 2010

Dolci dei primi freddi.


La piadina dei morti.

Al sopraggiungere dei primi freddi , per le festività di Ognissanti, si faceva un tempo la “piadina dei morti.
E’ un dolce rustico, povero, la cui base è la pasta di pane lievitata,da lavorare ancora sul tagliere con olio versato a gocce, perché venga ben assorbito.
( Per un kg. di pasta di pane : 1 bicchiere di olio,150g.di zucchero,150g.di uvetta, 150g.di mandorle e pinoli e una decina di noci.).
All’impasto di aggiunge lo zucchero ,l’uvetta e il trito di mandorle e pinoli.
Si lavora con energia, poi si stende in un padellone o tutto in una volta o a focaccine e si ricopre con mezze noci sgusciate.
Si lascia a lievitare in luogo tiepido ancora mezz’ora poi si cuoce in forno a calore moderato.

La meca

Un altro dolce povero , di poche pretese, che la Romagna non indulgeva certo nell’imbandire dolci, era” la meca”.
Come afferma anche Grazia nel suo libro “la cucina dell’arzdora”,la meca era un misero dolcino,adatto soprattutto alle veglie nelle stalle durante le giornate di quei gelidi inverni.
Anche se ciascuno la faceva a modo suo, per prepararla bastava un po’ di farina di polenta,, un pizzico di bicarbonato, e subito se ne faceva con un po’ d’acqua un impasto al quale si aggiungeva un po’ di uva secca e appena un poco di zucchero, anche se spesso quest’ultimo passaggio si saltava.
Si impastava il tutto dando la forma di un filoncino e si metteva a cuocere avvolto in carta gialla inumidita sotto la cenere ben calda.
Una volta cotta ,la meca si tagliava a fette e si mangiava accompagnata da un bicchiere di vino.

mercoledì 20 ottobre 2010

Il pancotto della nonna.


Dal libro di Grazia”La cucina dell’arzdora” sui mangiari romagnoli di una volta, riprendo la ricetta del “Pancotto”, il modo più semplice ed economico che avevano una volta di riutilizzare gli avanzi del pane secco, che non si buttava mai, anzi , spesso era difficile che ne rimanesse alla fine della settimana.
E’ una ricetta semplicissima :
“ Recuperato dunque il pane secco,lo si doveva sbriciolare un poco, mentre intanto si metteva dell’acqua sul fuoco in una pentola.
Appena l’acqua alzava il bollore, vi si buttava dentro il pane sbriciolato e lo si lasciava bollire per circa un quarto d’ora, con anche un pochino di lardo ottenuto con il raschiamento di qualche pezzetto di cotica di maiale.
Altrimenti il pancotto lo si condiva solo con poche gocce d’olio con l’aggiunta di un po’ di formaggio grattugiato”.
E’ pancot fatto ad arte era una minestra consistente e piacevole, purchè abbondante e servito molto caldo , che allora non serviva solo ai vecchi senza denti e ai bambini, ma per tutta la famiglia, soprattutto quando era inverno con le serate buie e uggiose e, fatta colazione di mattina tardi, si pranzava solo verso le cinque, le sei di sera.
Dice un vecchio proverbio: “Quand in fameja u j’è un indispòst, e’ pancot u l’mèt a post” , tanto era un piatto ben considerato ai tempi dei nostri nonni .Oggi nessuno si sogna più di fare il pancotto,e tantomeno di riutilizzare il pane raffermo, anche se devo dire che io qualche volta d’inverno lo preparo, però utilizzando del buon brodo di carne, e spolverizzando con abbondante parmigiano.
Comunque sia,in tempo di crisi e di ritorno alle ricette povere, è un piatto almeno da provare…..

martedì 19 ottobre 2010

La piada, pane dei poveri.


E dopo la magia del pane, dobbiamo onorare la piada, pane povero,tipico dei contadini romagnoli.
Era considerato infatti il pane della povera gente, tanto che l’Artusi disdegnò di inserire la piada nella sua”Scienza in cucina” perché non lo riteneva degno di figurare fra i cibi da lui offerti al ceto borghese e benestante.
Aldo Spallicci, che nel 1920 fondo la famosa rivista “La Piè”, ce ne dà gli ingredienti:un chilo di farina poco setacciata, un pizzico di bicarbonato, 50-100 grammi di strutto e un cucchiaino raso di sale.
Si aggiunge acqua per fare un impasto piuttosto consistente. Si fanno poi delle pagnottelle e ognuna poi si assottiglia col matterello fino ad ottenere un disco di pochi millimetri di spessore.
In ultimo si cuoce sul testo bucherellandone la superficie con una forchetta ,poi si taglia in quattro parti ed è pronta da mettere in tavola.
Con un chilogrammo di farina si possono fare perfino sei o sette piade ,il pane per una famiglia di quattro o cinque componenti.
Una volta, nei tempi di miseria , soprattutto presso le famiglie bracciantili, la piada si usava farla con la farina “d’amstura”, cioè con una mistura di farina di grano e di granoturco : veniva chiamata “e’ piadot” e a volte era fatta anche solo di farina di granoturco e veniva grossa e scura e granulosa.
Oggi la piada è diventata un simbolo distintivo della Romagna ma ora viene chiamata da tutti “piadina”,specie se ci si riferisce a quella servita nei nostri ristoranti tipici o venduta negli appositi chioschi e soprattutto non si cuoce più sul testo di terracotta ma sulla lastra di ferro infuocata dal gas.
Fu Giovanni Pascoli che italianizzò la parola “piè”,”pièda” “pida” in piada, e quando fu costretto ad abbandonare la Romagna ,dalla casa di San Mauro portò con sé due sole cose: una pianta di erba cedrina che con il suo profumo gli ricordasse il giardino della madre e un testo che gli doveva servire per fare, con le sorelle Ida e Mariù la piada, “il pane che si fa’da soli”.
Scrive il Poeta:
…………..
Ma tu,Maria,con le tue mani blande
domi la pasta e poi l’allarghi e spiani,
ed ecco è liscia come un foglio,e grande

come la luna; e sulle aperte mani
tu me l’arrechi , e me l’adagi molle
sul testo caldo, e quindi t’allontani.

Io la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
dal calor mite ,e si rigonfia in bolle:

e l’odore del pane empie la casa.

venerdì 15 ottobre 2010

Il pane cotto nel forno a legna.



Nelle campagne romagnole il pane si faceva generalmente una volta la settimana .
Per fare il pane ci volevano farina di grano ben setacciata, acqua, lievito, fatica, fuoco e non faceva male qualche benedizione.
Quando la miseria era più pressante,alla farina di grano si mescolava farina di granturco e in quel caso ne veniva un pane duro e meno gradevole del pane bianco.
I preparativi di solito cominciavano la sera: fin dalla volta precedente si era conservato il lievito madre che veniva sciolto stemperandolo con acqua tiepida e poi impastato con la farina formando una grossa palla piuttosto molle che si lasciava lievitare tutta la notte.
Durante la notte l’impasto cresceva e alla mattina presto lo si aggiungeva a tutta la farina occorrente , aggiungendo altra acqua tiepida e una manciata di sale.
Si amalgamava il tutto e si procedeva a lavorare l’impasto : era la parte più faticosa della lavorazione e quasi tutte le famiglie si aiutavano con la gramola ; una donna azionava la leva e un’altra rimuoveva velocemente la massa che stava lievitando.
Dopo mezz’ora l’impasto era pronto da lavorare nelle forme desiderate.
Le forme preferite un tempo dalle arzdòre erano il filone e la coppia , si doveva lavorare alla svelta perchè la pasta lievitava in fretta ,ma si cercava di dare grazia e simmetria ai pezzi cercando di farli tutti uguali.
Man mano che le forme erano pronte, si allineavano sull’asse adibita all’uso ,si coprivano con un telo bianco e pulito e si aspettava controllando di tanto in tanto il punto della lievitazione.
Intanto il forno era stato acceso, preparato, ed era al giusto punto di calore.
Si portava l’asse davanti alla bocca del forno e con l’apposita pala si mettevano delicatamente i pani sul piano ben spazzato staccandoli con un piccolo e deciso colpetto.
Compiuta l’operazione si chiudeva la bocca del forno segnandone il coperchio con una croce e si aspettava la cottura: il pane assumeva una colorazione dorata mentre intorno iniziava a spandersi il suo caratteristico odore.
Il pane veniva estratto dal forno bello, croccante e profumato e depositato in una grande cesta di vimini per essere poi collocato o su un’asse in cucina o nella credenza con le ante a retina per far passare l’aria e mantenerlo asciutto.
Per una settimana il pane (un pèz ad pèn) era assicurato, perché come dice il proverbio: “Tutti i guai sono guai, ma il guaio senza pane è molto più grosso” .

mercoledì 13 ottobre 2010

La fiasca fiorita di Forlì.



Questo quadro ,datato 1625-1630, di autore ignoto, secondo Paolucci ,il critico responsabile dei Musei Vaticani, non ha niente da invidiare in quanto a perfezione, al canestro di frutta del Caravaggio.
Si trova al Museo di Forlì e vale da solo il viaggio e la visita.

sabato 9 ottobre 2010

VINO E DINTORNI

IL FIASCO

Non é ancora certo a quale epoca risalga il "fiasco", cioè quel vaso di vetro, rotondo e corpacciuto senza piede, con una copertura fatta di erba palustre essiccata al sole ed imbiancata con zolfo che ne cinge il corpo e gliene fornisce anche la base. I pochi frammenti recuperati negli scavi o ricavati da fonti scritte collocano l'origine del fiasco nel 1400, tuttavia Boccaccio nel Decamerone già fa riferimento al fiasco, indicandolo come recipiente adatto a contenere buon vino vermiglio, e specifica che esistono diverse misure di quel recipiente, il che lascia supporre che vla produzione fosse già avviata nel 1300.
Un affresco della metà del XIV secolo, eseguito dal pittore Tomaso da Modena, mostra un fiasco di piccole dimensioni, rivestito con cordicelle disposte orizzontalmente, che lasciano libera solo la bocca.

venerdì 8 ottobre 2010

Il vecchio forno a legna


Ormai il forno a legna per cuocere il pane non esiste più nemmeno nelle case di campagna.
Una volta, invece, ancora nei primi anni dopo la Seconda Guerra Mondiale,non mancava in nessuna casa colonica, qualche volta attaccato alla casa e qualche volta sotto il portico o in posizione isolata, discosto da pagliai e fienili.
E non si usava solo per il pane, ma per cuocere arrosti (pochi, per la verità), ciambelle per le Feste, o per scaldare i rami di olmo che servivano per costruire le forche da fieno dando col calore la giusta curvatura.
Il pane si faceva una volta alla settimana e mentre l’impasto lievitava si procedeva a preparare il forno per ottenere il giusto grado di calore.
La prima operazione era quella di introdurre una fascina di stecchi (potatura delle viti, delle siepi di biancospino, degli alberi da frutta) appena dentro l’imboccatura, con sotto paglia o carta accesa e tenerla sollevata col forcone finchè non avesse preso fuoco.
Poi si spingeva dentro un poco alla volta fino ad arrivare a farla bruciare al centro del forno e alla terza fascina il fuoco ormai era pronto .
Allora si spargevano le braci sulle pietre del forno e si preparava il piano su cui posare il pane: una parte delle braci veniva spazzata intorno alle pareti con uno “scopone”di saggina dal lungo manico e il pavimento pulito dalla cenere con uno straccio umido legato ad un palo o a un forcone.
Il forno era ormai pronto per la cottura e se ne chiudeva la bocca con l’apposito paravento di ferro per mantenerne il giusto calore.
Tutte queste operazioni facevano parte di un rituale composto da atti sempre uguali e realizzati con tempismo perfetto: dall’accensione fino al momento in cui si poteva introdurre il pane si doveva seguire un itinerario forzato e naturale per cui non era possibile variare, anticipare o posticipare nulla.
Dal momento in cui si dava fuoco alla prima fascina al momento in cui si poteva dire “il forno è pronto”,passava non meno di un’ora ,un’ora e mezzo e a questo punto il pane doveva essere già sull’asse pronto per essere infornato.
……le donne infatti,avevano cominciato a preparare l’impasto già dalla sera prima …..ma ….questa è un’altra storia……..

martedì 5 ottobre 2010

La bottega di una volta.



Nell’introduzione della ristampa di una guida di Rimini dei primi decenni del Novecento, l’Editore Bruno Chigi ricorda e descrive una rivendita di “Sali e Tabacchi e generi vari “del tempo di quando era bambino, quella di “Bigiola” nei pressi del bivio per Sant’Aquilina.
“In quella bottega si trovava di tutto: sale, tabacchi, riso , pasta ,conserva di pomodoro, “pitture “ di baccalà e di “lumbardoun” (stoccafisso),”sardeli” (acciughe sotto sale), tonno, aringhe, caramelle, confettini colorati per la ciambella, castagne secche,cannella, noce moscata, spago, quaderni, matite,carta oleata,sapone, bandella, filo da cucire e per lavorare ai ferri, bottoni, aghi, petrolio e carburo per l’illuminazione ;inoltre aspirine, purghe e pastiglie di potassio per il mal di gola.
Quello di Bigiola era, come tanti altri empori , un “centro di cultura”: vi si davano appuntamento diverse persone per scambiare opinioni sull’andamento delle stagioni ,sul raccolto, sulle situazioni famigliari ,sulla politica,sulle persone per bene e sui balordi.
D’inverno spesso vi si giocava a carte : accanite partite a briscola e tresette , tra battute, scherzi e racconti esilaranti “.
Queste botteghe erano più o meno le stesse in tutti i paesi, avevano un grande bancone con sopra la bilancia a due piatti,dietro il quale stava il padrone o la moglie,i conti si facevano a matita sulla “carta gialla”e i contadini vi scambiavano le uova o altri prodotti in cambio di baccalà o di sapone per il bucato e molto spesso di “segnava”,cioè si scriveva il dovuto su un libretto e si pagava a fine mese o dopo il raccolto.
Poi ,nel giro di pochi decenni, tutto si è modernizzato, una dopo l’altra le botteghe sono state sostituite da negozi asettici e specializzati, con nuovi prodotti richiesti dall’accresciuto benessere : un ‘altra casella di vita ormai scomparsa.

sabato 2 ottobre 2010

Il maestro bottaio, mestiere ormai scomparso.


Autunno,tempo di vendemmia , di vino, e di botti e tini di ogni tipo e misura.
Di artigiani bottai locali ce n’è ancora qualcuno, ma sono rimasti in pochi e anche se nei rari laboratori sono arrivate le macchine ,queste servono solo a fare più presto, perché quello che conta, per il risultato finale è ancora l’abilità manuale.
Una abilità che si conseguiva con anni di pratica e attenta osservazione, facendo a mano doga per doga ,con la giusta curva e il giusto spessore , sicuri poi che appoggiandole una all’altra avrebbero perfettamente aderito e composto,insieme ai cerchi, botti perfette con la dovuta bombatura centrale calcolata ad occhio sicuro.
Perché la curvatura del legno, nelle botti artigianali , si ottiene in due soli modi: o togliendo il superfluo al legno con sega,pialle, scalpelli “sapeta” e raspa, o piegando le doghe secondo l'antica pratica della curvatura a mano con l'acqua bollente e una conseguente paziente stagionatura.
Una volta i tini di pregio si facevano col legno di gelso ma adesso è difficile trovarlo e quello che viene dall’estero si usa quasi esclusivamente per le piccole botti per l’aceto balsamico, botti anche minuscole da pochi litri.
Invece per le botti il legno più usato è quello di larice, di castagno e rovere, ma anche questo è tutto legno di importazione perché le nostre querce hanno il legno troppo duro ,tanto che una volta, per ammorbidirlo, seppellivano le tavole a stagionare sotto il letame.
Cose di un altro tempo e di un altro mondo, quando la fretta non andava mai a discapito della qualità e uomini pazienti e abili erano padroni del loro mestiere.