lunedì 30 agosto 2010

La battaglia del grano.


Oggi il sito del Comune di San Mauro, Sanmauropascoli.news, dopo quello di Poggio Berni, ha messo nei link amici anche il logo nel nostro blog “Lacampagnappenaieri”,e ricambiamo la cortesia con un pezzettino di memoria di San Mauro di qualche tempo fa………..
Negli anni del Regime Fascista, quando imperava la retorica dell’autosufficienza e della massima produzione ,si era istituito un premio chiamato “La battaglia del grano” ,un concorso comunale che premiava gli agricoltori e i coloni che ne producevano di più.
Da un articolo del Resto del Carlino del 1927 riguardante l’anno agricolo 1925-26, riportiamo la cronaca della premiazione dei coloni più produttivi di San Mauro di Romagna, (come si chiamava allora):

“Nell’aula maggiore del Comune, in forma solenne,sono stati distribuiti i premi del concorso comunale per la battaglia del grano per l’anno 1925-26.
Erano presenti l’agronomo Benzi per il direttore della cattedra di agricoltura di Cesena,dott. Moroni,le autorità comunali e politiche del paese e numerosi agricoltori e coloni del luogo.
Il Municipio ha offerto agli intervenuti un vermuth d’onore . Il Podestà ha portato ai vincitori il suo plauso esaltandoli come militi valorosi delle più formidabili legioni del lavoro d’Italia, esprimendo tutto il sentimento di riconoscenza dato nella battaglia voluta ed impegnata da S. E. Benito Mussolini, Duce del Fascismo e Capo del Governo.
L’agronomo Benzi ha ringraziato il Podestà per l’alto discorso ,dando poi consigli e chiarimenti sul prossimo quarto concorso per l’anno 1926-27e insegnamenti per il miglioramento dell’agricoltura.”

I premiati sono:
1° premio- Amm. Torre ,colono Domeniconi Domenico.
2° premio –Cav. Bilancioni, colono Fornari Isidoro.
3° premio –Benelli comm.Ignazio, colono Casali Attilio.
Menzione Onorevole:
- Ricci cav. Augusto ,colono Bertozzi Giuseppe.
- Bilancioni cav. Luigi,colono Fornari Domenico.
- Amm. Torre, colono Zamagni Luigi
- Amm. Torre, colono Gobbi Pietro.

L’ultimo colono,Gobbi Pietro ,era il mio bisnonno, che in seguito riuscirà ad ottenere il primo premio.

domenica 29 agosto 2010

Franco in bici


Questa foto, ingiallita, mandata da Franco, fa parte del suo album di famiglia. Aveva due anni, e sostiene che era capace di andare in bicicletta.

sabato 28 agosto 2010

La bicicletta,da sempre simbolo di libertà.



Estate, la stagione più bella per un giro in bicicletta.
E in nessun altro posto come in Emilia- Romagna la bicicletta ha conosciuto tanta popolarità fin da subito, a tal punto che negli anni Trenta la regione detiene il primato nazionale di diffusione del mezzo, in rapporto alla popolazione.
Nel 1926 circolano nel nostro Paese 2.900.000 biciclette registrate ( si pagava la tassa di circolazione): allora una buona bici di marca costava 290 lire ,un operaio specializzato aveva una paga di 70 lire, un litro di latte costava 1 lira ,il giornale 25 cent.
Non era facile potersela comprare , occorrevano molti sacrifici, ma
possedere una bicicletta negli anni a cavallo fra le due guerre era il raggiungimento di qualcosa di importante . Specialmente per operai, contadini e impiegati che potevano spostarsi più velocemente dall’abitazione al posto di lavoro o ai campi da coltivare e allargava la possibilità di trovare occupazione in posti prima considerati troppo lontani.
Un mio prozio, da giovane ,negli anni Trenta,lavorò tutta un’estate come cuoco in uno dei primi alberghi di Viserba per mettere da parte i soldi per comprarne una usata , ma poi la poteva sfoggiare in paese e pavoneggiarsi con le ragazze .
E chi può dimenticare il film “Ladri di biciclette “ nel quale il protagonista cerca di rubarne una perché era il requisito principale per ottenere un lavoro….
La bicicletta divenne, infine, anche strumento di propaganda politica.
E’ infatti a Imola che nel 1913 viene fondata la “Federazione nazionale ciclisti rossi” che ,recita lo statuto ,deve “mettere al passo “ coi tempi della modernità la propaganda politica e far arrivare, in definitiva il verbo socialista anche nelle più sperdute frazioni di campagna.
A quei tempi si pedalava perlopiù su strade bianche , imbrecciate alla buona e piene di buche e non di rado si cadeva e ci si sbucciavano le ginocchia .
Nel tempo libero i ragazzi che possedevano una bicicletta portavano in giro , al mare o al cinema le morose sedute sul “cannone”, come testimoniano le tante foto di allora.
E infine nei paesi ,nonostante il traffico quasi assente ,le mamme non mancavano di ammonire i figli che uscivano a giocare per strada a stare attenti alle biciclette e a non finirci sotto…(sta atenti al biciclèti !)

domenica 22 agosto 2010

Quando si arava con i buoi.


Ci avviamo verso la fine di agosto e questo è il
tempo nel quale si comincia uno dei lavori fondamentali per la campagna, l’aratura.
Ancora dopo la seconda guerra mondiale c’era chi arava con i buoi, ma dopo gli anni ’50 questa pratica è stata velocemente e definitivamente abbandonata a favore dei moderni aratri trainati dai trattori.
Ma prima, quando il lavoro lo facevano le bestie, si ripetevano gli antichi stessi gesti di generazione in generazione :si cominciava al levar del sole,si “attaccavano i buoi “al giogo e ai vari finimenti e ci si avviava verso i campi da arare sfruttando le ore più fresche della giornata.
Le bestie che si volevano destinare a questo lavoro venivano addestrate per tempo a cominciare dai due anni d’età; prima si abituavano a tenere solo il giogo sul collo, poi a tirare un qualche attrezzo come un baroccio scarico,infine si attaccavano con altre paia già abituate nel tiro dell’aratro.
In seguito venivano addette ai lavori pesanti fino alla loro sostituzione, che generalmente avveniva verso gli 8anni per i buoi e verso i 10-12 anni per le vacche.
Le bestie però generalmente non potevano essere utilizzate a caso,ognuna aveva la sua “mano”: c’era quella a mandritta che era abituata a stare a destra e quella mancina che stava a sinistra, così che il lavoro procedesse spedito e diritto senza troppi richiami da parte del “zarladòur”,colui che guidava e sollecitava il “tiro” dei buoi . Nella nostra zona ,ad esempio, si chiamava Ro quello che stava a sinistra e Buni quello di destra.
L’aratura con i buoi era un lavoro lento e pesante , si andava da una “cavedagna “all’altra dei campi ,si girava e si tornava indietro , ma ,a seconda del risultato che si voleva ottenere ,si poteva cominciare ad arare dal centro se il campo doveva essere “colmato” o dai lati se si voleva creare al centro un “solco spaccato”.
Inoltre l’aratura si poteva fare con diverse paia di buoi e ,secondo le diverse esigenze di colture, si andava da uno fino a tre paia aggiogati allo stesso aratro per gli scassi poderosi che servivano per l’impianto delle viti .
In Emilia Romagna la razza bovina Romagnola, che è la più rappresentativa e la cui attitudine principale per secoli fu l’impiego per i lavori nei campi, ha origini antichissime:probabilmente i suoi antenati arrivarono in Italia con i Longobardi o i Goti, attorno al IV sec. D. C.
Nel 1953, in un areale che andava dal Veneto ,attraverso l’Emilia e arrivava alle Marche, ce n’erano ancora mezzo milione di capi.
Oggi è razza da carne: ne esistono ancora solo circa 15.000 capi , allevati a pascolo soprattutto nell'Appennino Forlivese e costituisce uno dei presidi di Slow Food.

giovedì 19 agosto 2010

Il "mulino" descritto in dialetto

Ed ecco, come promessa, la vera zirudela di Villa sull'importanza dei vecchi mulini, scritta in dialetto dall'autore stesso.

"A San Clement me,da burdel, / a faseva e scarpinel, / andai un giorne a lavorè / da un zert Mighen de S. Andrè. / A lavureva a me banchett / e venn olta i la Cicchett / clera quest un contadein / che d'Mighen l'era e su vsein. / I prinzipia a ragionè / can iera mod da pse masnè, / ed infat iera una sciutta, / giù tla Conca cla era brutta! / Cicchett ei diss a ma Mighen, / "Tullimma su, andamma pien pien / con e brocce a sli tu vacch / a masnen tri quatre sach / i là a Pesara dall'Alben, / e sarà un pò da lonten / ma at garantis però dmateina / ca venem olta sla fareina." / ( E fu e prim an i là che sgniour / che masneva se vapour.) / Ei rispous, " Staveiss parlè / a stora za a saresme andè.../ Di su- ei diss - com let savù / che i là a Pesar la piovù?" / Cicchett e diss : " Tse un gran qua... / I mesna e gren, e formantoun / migh sa l'acqua, se vapour./ In fa vint sach ogni tre or!" / Mighen che sent sta sinfonia... / cleva savù cl'era magia.../ iamancò poch a ma Cicchett / ca ni mnassa con e sghett. / Ei diss :" E ti brutt scellered, / tam vorres mandè danned?! / Ma cla fareina chi fa i là / a ne el Demonie che la fà?!... :/ To! vigliach...", ei diss, per ti / ei fe al corne e pu e partì / battend i tach e via alla lesta / con du occ fuor da la testa. / Guardè mo che diferenza / da cla volta e
ades in scienza.../ Eppur seben che ioperai / oz i ne più tant somni / tent ignorent o tent gabben / com Cicchet ossia Mighen; / sebben che e studi e l'istruzion / ià fat tent squerti ed invenzion, / sebben chià fat spo dì e mond nov..../ e neceseri, però, in là migh trov!? / I na trov cla fratelenza, / che bon cor e cl'eguaglienza / che tra d'noun l'avrea d'esist!,,,/ predicheda meda Creist, / da Mazzini, da Tolstoia / a sem ancora tenti boia / tenti tigri e tent leon / ca faresme i mors tra d'noun! / E fin che regna st'dottrinisme, / ste sistema, st'egoisme, / se ench i studia oppur ch'iinventa / d'fe al lasagni da la polenta, / d'fe la seda de cuttoun, / da fer dl'or meda l'ottoun, / a anderemm, e tnevle in ment, / sempre pegg e malament!
G.Villa

mercoledì 18 agosto 2010

Una zirudela di Villa sui mulini

Vorrei regalare al Comune di Poggio Berni, con cui abbiamo un link, un frammento di una zirudela del grande Giustiniano Villa. La zirudela dal titolo "Le rimembranze emozionanti della mia vita" é del 1910 e parla delle "modernità" di quell'epoca, cioè della radio, del telefono, dei treni ecc. ecc., ed infine dei MULINI. Trascrivo qui il brano sui mulini tradotto in italiano da me nell'anno'79 in occasione dell'Edizione di "ZIRUDELI", del Girasole.
..."A San Clemente da bambino / io facevo il ciabattino / ed un giorno da Minghino / in un paese lì vicino / vidi arrivare al mio dischetto / un certo Cicchetto / che era un contadino / di Minghino il suo vicino. / Cominciarono a ragionare / che non c'era modo di macinare / ed infatti era tutto asciutto / lì nel Conca ed era brutto. / Cicchetto disse allora a Minghino / "Andiamo giù piano pianino / col biroccio e le vacche / a macinare tre quattro sacche / là a Pesaro dall'Albani / anche se son posti lontani. / Ma ti garantisco per domattina / che torniam con la farina."/ Gli rispose " Se tu prima avessi parlato / avrem tutto già macinato". / Poi gli disse, "Come l'hai saputo / che a Pesro ha già piovuto?" / E Cicchetto" Sei proprio un quaglione / lì macinano grano e furmentone / non con l'acqua ma col vapore! / Ne fan venti sacchi ogni tre ore." / Minghino sente 'sta sinfonia / che lui sapeva era tutta magia / ci mancò poco che a Cicchetto / gli desse addosso dentro al corpetto / disse: "E tu gran scellerato / mi volevi mandare dannato / che la farina che fanno là / è il demonio che la fà. / Tò,vigliacco!" E gli fece così../ due belle corna, e via partì. / Battè i tacchi,e via alla lesta / con gli occhi fuori dalla testa./ Capite,dunque,che differenza / da un tempo ad ora nella scienza / eppur, sebbene che gli operai / non si fan metter più tanto nei guai / che non son più ignoranti e baggiani / come Cicchetto e con lui anche Migani / sebben con lo studio e l'istruzioni / si faccian sempre scoperte e invenzioni / sebbene il mondo l'abbian fatto nuovo / quel che serve proprio non lo ritrovo. / Non han trovato la fratellanza / quel buon cuore e quella uguaglianza / che così dovrebbe essere visto / fin dall'epoca di Cristo / e poi di Mazzini e di Tolstoia / mentre siam sempre tutti boia, / come tigri, come leoni / ci diamo i morsi e non siam buoni!/ E fin che regna 'sto dottrinismo / questo sistema, questo egoismo / se anche si studia e poi s'inventa / tirando lasagne dalla polenta, / tirando la seta fuor dal cotone, / oppure l'oro fuor dall'ottone, / andremo avanti, e tenetelo a mente / sempre peggio e malamente. G. Villa ( firma autografa )
Alla prossima puntata, in dialetto. GBM.

lunedì 16 agosto 2010

Gli "sciabigotti"


Nelle Marche, soprattutto nel mese di Agosto, si pescava vicino riva con la sciabica, da cui gli sciabigotti, i pescatori, appunto.Con una barchetta si andava poco lontano da riva gettando una lunga rete che descriveva un'ansa per poi tornare a riva. Al centro della rete c'era una sorta di sacco che imbrigliava il pesce. Tramite delle corde la rete si ritirava a terra ed il sacco, pieno di pesce vivissimo, si vuotava. Di frequente, in mezzo al pescato, c'erano dei pesci ragno ed erano dolori se incautamente si pestavano coi piedi scalzi. Gli sciabigotti più accorti di solito li ributtavano in mare.La foto é degli anni '30 e l'ha spedita Franco.

domenica 15 agosto 2010

giovedì 12 agosto 2010

"L'aqua in bòcca" di Tonino Guerra



Seguendo l’esempio di Grazia che ci ha trascritto una poesia in dialetto, ve ne voglio far conoscere una di Tonino Guerra che rende molto bene l’ansiosa attesa della pioggia dopo giorni e giorni di un’estate di siccità, e la contentezza quando finalmente cadono le prime gocce.

L’AQUA IN BOCCA

La tèra l’èva una saida ch’la n u n putèva piò,
s’un’aria sòta ch’la fasèva tremè i èlbar e i palaz
e u n’la respirèva gnènca e’ Signòur.
E’ nascèva i fugh cumè se u i foss benzina
E u s’è brusè grèn e furmantoun.
Datonda totta la campagna sfarinèda
fina a mèza gamba
l’era dvènt un mond ad porbia
ch’l’ariveva mal muntagni.
I bosch l’era candlòt ad zendra ch’i s quaièva.
I gazot e i animeli i è scap da e’ zil
e da la tera,mo i bagaròz
al lumèghi e i sorgh i è mort a boca verta.
Dop u s’è alzè e’ vent ch’l’à tirat pr’aria
Un znòc ad pianèura e al novvli niri
Agli à impurbiè fina a’ Bulogna stredi
Còpp e òman.
L’à tac a piov al dò dla nòta di queng d’utobar
Dop a quatar mois e un dè.
La zenta la s’è svegia ch’la n i credèva.
I a ciap caplèti urz cadòin e bicìr
E i s’è bott tla streda.
U i è stè ènca di pataca ch’i balèva.
Mè, che aloura avèva òt an
Sla faza còuntra e’ zil a m fasèva piòv ad bòca.



L’acqua in bocca :
La terra aveva una sete che non ne poteva più/ con un’aria secca che faceva tremare gli alberi e i palazzi/ e non la respirava neanche il Padreterno.
Nascevano fuochi come se ci fosse benzina /e s’è bruciato il grano e il granoturco.
Attorno la campagna sfarinata/ fino a mezza gamba/ era diventata un mondo di polvere /
Che arrivava alle montagne.
I boschi erano candelotti di cenere che crollavano .
Gli uccelli e gli animali sono scappati dal cielo / e dalla terra ,ma gli scarabei /
Le lumache e i topi sono morti a bocca aperta.
Dopo si è alzato un vento che ha tirato in aria / un ginocchio di pianura e le nuvole nere/
Hanno impolverato fino a Bologna strade ,/coppi e uomini.
Ha cominciato a piovere alle due di notte il quindici di ottobre / dopo quattro mesi e un giorno/. La gente si è svegliata che non ci credeva.
Hanno preso secchi, orci e bicchieri / e si sono buttati sulla strada/,
E ci sono stati dei cretini che ballavano./
Io ,che allora avevo otto anni/con la faccia contro il cielo mi sono fatto piovere in bocca.

lunedì 9 agosto 2010

I primi dieci giorni di Agosto

Tutti pensano che per il dieci di Agosto si reciti la poesia di Pascoli...Io lo so perchè tante di stelle per l'aria tranquilla arde e cade, perchè si gran pianto nel tiepido celo sfavilla...Io invece penso a quei dieci giorni quando, in campagna, tutti si prendevano una di quelle dieci giornate per andare al mare. Come era una di quelle giornate per i contadini potrei raccontarvelo io, ma preferisco farlo dire da un mio vecchio amico che lo racconta in dialetto e in poesia.
" Us andeva,tutt i'an, un dè a maraiina / 'S e' bruzz cun la capana. Avimi dri / De' vain, di pull arost e dla purzaina, / E un urganain par l'ess e' zugh cumpi'./
Bij, Ro...a digh: va so, Ro; va là te, Bij... / Sinna ch'a simi' t' l' era dla Guiraina. / E pu zo par l'arnazz, aventi e indrì; / Piò terd, int l'aqua, emench, par un' urtaina. / Ma la tevla a i stasimi ancora ad piò: / E 't l'ultum, a ballè...sin che l'undlona / La deva e' segn ch'l'era ora ad turnè sò./ Bji...Ro I burdell i feva de'rumor; / Al veci, a occ cius,a 'l giva la curona; / E i fasiva i zuvnott, pianain, l'amor."

sabato 7 agosto 2010

ANCORA SUI MULINI




Foto del mulino di Soncino, provincia di Cremona, accanto alla Rocca Sforzesca. Franco ha promesso di relazionare ulteriormente sui mulini. Speriamo bene.

I cacciatori di delfini.


Anni trenta: Imolesi (1) e Pezzolati (2).


Bastano pochi decenni a far cambiare il mondo e dalla campagna di appena ieri oggi facciamo un salto indietro per raccontare una vecchia storia di mare.
Forse c’è qualche anziano pescatore che se lo ricorda ,ma molti non sanno che negli anni trenta si dava ancora un premio ai cacciatori di delfini.
A Cesenatico era famoso per queste imprese un certo Agostino Imolesi, detto Brighella, un pescatore alto ,audace , forte e abile nuotatore.
Il suo nome era conosciuto su tutta la. costa Adriatica, perché era il solo che si dedicava con intensa passione e con grande efficacia alla caccia dei delfini.
Questa attività si era ulteriormente intensificata dopo che il Governo aveva stabilito un premio di lire 50 per ogni maschio e di lire 100 per ogni femmina gravida.
Il motivo per cui i delfini erano cacciati era che venivano considerati pericolosi perché causavano molti danni ai pescatori in quanto si infilavano nelle reti e per scappare le danneggiavano provocando larghi squarci dai quali usciva anche tutto il pescato della giornata.
Così quasi ogni mattina l’Imolesi usciva in mare armato di carabina ,dardo e pugnale e, insieme al suo aiutante Pezzolati di Goro, si inoltrava anche per 40 chilometri per scegliere la sua vittima.
Una volta scorto il cetaceo, lo inseguiva e alla prima occasione lo avvicinava pronto a lanciare il dardo appena fosse riaffiorato:quasi mai il suo braccio allenato sbagliava il colpo e se era il caso si tuffava e lo finiva conficcandogli il pugnale nella gola.
Raramente faceva uso della carabina ,perché essendo il delfino molto pesante,andando sott’acqua non lo avrebbe più potuto recuperare .
Nel 1930 , anno fortunato, riuscì a catturare anche quattro delfini in due giorni e nel mese di giugno un esemplare di quattro quintali: se però il premio era certo, non altrettanto facile era la vendita del pesce perché le sue carni non erano gradite a tutti i palati e solo nel riminese sapevano cucinarle a dovere.
Oggi che i delfini sono protetti queste cose ci fanno inorridire ma Agostino Imolesi, in quegli anni,grazie alla sua passione e alla sua abilità si è conquistato un posto nelle cronache locali e nell’album dei ricordi della gente di Cesenatico.

mercoledì 4 agosto 2010

Agosto: il taglio della canapa.



I primi giorni d’agosto ,nella campagna di appena ieri,e cioè fino al primo decennio dopo la seconda guerra mondiale, un tempo erano dedicati al taglio della canapa, al massimo si poteva arrivava al 10, San Lorenzo, non di più.
La coltivazione e la lavorazione della canapa richiedeva ai contadini grande fatica e un forte impegno di mano d’opera ma era molto redditizia, data la sua elevatissima resa per tornatura.
Si cominciava con la falciatura e una volta tagliata si lasciava nei campi raccolta in mannelle legate in cima e in posizione verticale una contro l’altra.
Poi si tornava nei campi ,si sbattevano le mannelle con forza per far cadere le foglie ,si facevano dei fasci di venticinque, ventotto mannelle ,si caricavano sui carri e si portavano fino all’aia, in attesa del trasporto ai maceri.
I maceri generalmente erano situati nei pressi di fiumi e canali ,alimentati dalle loro acque e alcuni molto grandi potevano contenere enormi quantità di fasci ; molti invece mettevano la canapa a macerare nel corso stesso dei fiumi ,come accadeva nel nostro territorio dove l’Uso e il Rio Salto formavano un tempo gorghi profondi adatti allo scopo.
Nel macero la canapa doveva rimanere a mollo per due settimane poi si riportava sull’aia e si stendevano i fasci a ventaglio per farli asciugare in attesa dei “Macadèur dla canva” che la pestavano con un palo d’olmo per separare la scorza dalla parte fibrosa , che poi deve essere “Gramata”.
Qualcuno possedeva una grama di suo,ma di solito la gramolatura veniva fatta da uomini che passavano di casa in casa con la “Grama” , una specie di pesante cavalletto con un’asta con manico che sollevata e abbassata ritmicamente liberava la canapa grezza dai residui legnosi.
Dopo questo trattamento, la canapa diveniva morbida e fioccosa ed era pronta per l’arrivo dei canapini che la passavano con appositi “pettini” e la dividevano in “Stòpa,stuparèina ,legul e fiòur” .Con la stoppa si facevano corde e tela per i sacchi, con la stupareina e legul, uniti a cotone o lino, si tessevano tele per lenzuola, rigatino per vestiti e altre telerie mentre il fiore si usava per la biancheria più fine.
I canapini lasciavano tutti i tipi di canapa divisa in matasse ,“la gavètla”,e ogni matassa si faceva bollire in acqua e cenere e sciacquata in acqua corrente ,ripetendo il procedimento più volte fino alla completa sbiancatura .
Un lavoro lunghissimo e paziente quello della canapa, prima di essere pronta finalmente per la tessitura e per formare il corredo di ogni ragazza che si rispetti della campagna di appena ieri.

domenica 1 agosto 2010

I birocciai , padroni delle strade bianche



Uno dei tanti mestieri scomparsi ormai da molti decenni è quello del birocciaio, un lavoro duro,come era dura la vita per molti lavoratori a quei tempi.
Quella del birocciaio era vita di disagi, di caldi, di freddi ,di nottate insonni: ad ogni stagione si levava ad ore impossibili per caricare il trasporto ,per preparare l’attacco delle bestie ,e poi via per il viaggio sulle strade bianche che spesso durava molte ore da farsi col sole o con la pioggia, con la nebbia e col gelo.
Quando invece il birocciaio faceva trasporti regolari seguendo giorno dopo giorno lo stesso itinerario e le stesse soste, i cavalli,i muli e i somari del traino conoscevano anch’essi la strada e si fermavano da soli anche senza bisogno di ordini e questo valeva soprattutto per le fermate alle osterie, tappa obbligata per un bicchiere di vino.
C’erano barocciai che, invece, facevano trasporti occasionali e i loro itinerari cambiavano come cambiavano le merci, e spesso nel buio e nella nebbia percorrendo strade dissestate e strette perdevano il controllo delle bestie e il carico si ribaltava .
Quando questo avveniva era una tragedia, perché in certi luoghi e in certe ore le strade erano deserte e se c’erano danni o ferite non c’era modo di avere soccorsi.
Di notte, soprattutto,salvo casi eccezionali di qualche viandante o di un medico condotto chiamato d’urgenza,le strade erano soltanto dei birocciai.
Procedevano nel buio accompagnati solamente dal chiarore del lume a petrolio che oscillava legato sotto il carro e cercavano di tenersi svegli fischiando melodie e motivetti conosciuti e inventati e schioccando la frusta ogni tanto.
Tutto il trasporto merci era fatto dai birocciai a traino bovino ed equino, ogni tipo di derrata che arrivava nelle città e nei paesi dai porti, dalle stazioni o dai mercati era smerciato su carri e birocci e fu sempre così fino all’avvento dei primi camion.
La figura del birocciaio ha ispirato anche Giovanni Pascoli ,che nella bella poesia “L’asino”, racconta del pescivendolo Schiuma di Bellaria che si addormenta, dopo aver fatto il suo giro, nei pressi di Sogliano ,di sera, sulla via del ritorno a casa,
Stanco del viaggio si addormenta e sogna felice le tappe che via via lo porteranno verso la sua capanna e il suo mare e allora anche l’asino si ferma :per riposare un poco anche lui e per lasciare che l’uomo sogni in pace la sua corsa verso casa.



Se a "Il Teorema di Dionea" piacciono i mulini dell'Olanda, eccola accontentata