domenica 22 agosto 2010
Quando si arava con i buoi.
Ci avviamo verso la fine di agosto e questo è il
tempo nel quale si comincia uno dei lavori fondamentali per la campagna, l’aratura.
Ancora dopo la seconda guerra mondiale c’era chi arava con i buoi, ma dopo gli anni ’50 questa pratica è stata velocemente e definitivamente abbandonata a favore dei moderni aratri trainati dai trattori.
Ma prima, quando il lavoro lo facevano le bestie, si ripetevano gli antichi stessi gesti di generazione in generazione :si cominciava al levar del sole,si “attaccavano i buoi “al giogo e ai vari finimenti e ci si avviava verso i campi da arare sfruttando le ore più fresche della giornata.
Le bestie che si volevano destinare a questo lavoro venivano addestrate per tempo a cominciare dai due anni d’età; prima si abituavano a tenere solo il giogo sul collo, poi a tirare un qualche attrezzo come un baroccio scarico,infine si attaccavano con altre paia già abituate nel tiro dell’aratro.
In seguito venivano addette ai lavori pesanti fino alla loro sostituzione, che generalmente avveniva verso gli 8anni per i buoi e verso i 10-12 anni per le vacche.
Le bestie però generalmente non potevano essere utilizzate a caso,ognuna aveva la sua “mano”: c’era quella a mandritta che era abituata a stare a destra e quella mancina che stava a sinistra, così che il lavoro procedesse spedito e diritto senza troppi richiami da parte del “zarladòur”,colui che guidava e sollecitava il “tiro” dei buoi . Nella nostra zona ,ad esempio, si chiamava Ro quello che stava a sinistra e Buni quello di destra.
L’aratura con i buoi era un lavoro lento e pesante , si andava da una “cavedagna “all’altra dei campi ,si girava e si tornava indietro , ma ,a seconda del risultato che si voleva ottenere ,si poteva cominciare ad arare dal centro se il campo doveva essere “colmato” o dai lati se si voleva creare al centro un “solco spaccato”.
Inoltre l’aratura si poteva fare con diverse paia di buoi e ,secondo le diverse esigenze di colture, si andava da uno fino a tre paia aggiogati allo stesso aratro per gli scassi poderosi che servivano per l’impianto delle viti .
In Emilia Romagna la razza bovina Romagnola, che è la più rappresentativa e la cui attitudine principale per secoli fu l’impiego per i lavori nei campi, ha origini antichissime:probabilmente i suoi antenati arrivarono in Italia con i Longobardi o i Goti, attorno al IV sec. D. C.
Nel 1953, in un areale che andava dal Veneto ,attraverso l’Emilia e arrivava alle Marche, ce n’erano ancora mezzo milione di capi.
Oggi è razza da carne: ne esistono ancora solo circa 15.000 capi , allevati a pascolo soprattutto nell'Appennino Forlivese e costituisce uno dei presidi di Slow Food.
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Nelle Marche l'aratura, almeno fino all'inizio del secolo scorso, si faceva con gli aratri di legno e naturalmente non poteva essere profonda: riusciva sempre molto faticosa, sia per dover reggere l'attrezzo in mezzo a delle zolle alle volte durissime, sia anche per il continuo vociare per stimolare le mucche (nella mia zona si dicevano da triplice attività, cioè da carne, da latte e da lavoro)qualche volta tre ed anche quattro paia, attaccate allo stesso aratro i cui nomi tradizionali erano: Galantì Favorì, Biancolì, Nnammorà, Cimarè. La rottura della stoppia era fatta anche con la vanga che sostituiva l'aratro nei terreni piccoli; e si vangava dall'alba al tramonto: gli uomini chiamati alla giornata (detti "le giornate") prendevano per tale lavoro otto bajocchi al giorno.
RispondiEliminaE'lei al giogo,
RispondiEliminala mano decisa delle manze pareggia
il tiro.
Diciottenne,
dalla crocchia dipanano raggi di sole
e il piede rasenta l'ombra
del filare.
Avevo 6 o 7 anni, mio padre arava con tre mucche a disposizione, a turno giornaliero 2 aravano e una riposava, una sola era sua. Tornavo da scuola e mirecavo sul posto. Quando la nostra mucca era in libera veniva lasciata a pascolare e appena mi vedeva veniva verso di me: proprio come un cagnolino. Un animale così grosso con un bambino così piccolo. Una grande amicizia. Lei beccava con la sua grossa e ruvida lingua le mie braccia minute (forse perché ero sudato e le piaceva il sapore di sale),io le toglievo le mosche dal viso che le succhiavano il sangue. Lei mi restava vicino e mi seguiva restando nei miei paraggi a pascolare. La sera, libera e senza essere guidata, avanti a tutti, andava verso casa come se guidasse lei il corteo. La ricorderò sempre anche se ormai sono circa 65 anni
RispondiEliminaRicordi della mia dolce vita di campagna. Rocco Cedrone.
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