domenica 28 novembre 2010


Cari amici del blog, vi faccio una proposta di cena conviviale con un menu ispirato ai mangiari romagnoli contadini di tutti i giorni, raccolti nel mio libro "la cucina dell'arzdora" in occasione della V ristampa (Editore Panozzo di Rimini). Tutti dunque il 17 dicembre alle 19,30 al "Ristorante 2020" di San Mauro Pascoli, via Roma, 23.Info:Giovanna 0541-930335 / Grazia 0541-786-786091. Menu: Coppa di testa e salsiccia stagionata - Triangoli di frittata con cipolla e pancetta - Erbe miste e verza all'aglio - Formaggio bazzotto - Piada romagnola. Strozzapreti o lunghet dell'arzdora - Minestra di maltagliati e ceci - Ciambella - Uva e noci - Sangiovese cagnina e caffè. euro 20.00 Il libro verrà presentato dal Sindaco di San Mauro Pascoli dottor Miro Gori e sarà presente oltre l'editore Panozzo lo scrittore , enogastronomo professor Piero Meldini che a suo tempo ha curato la prefazione del libro.

Le notti buie di Sant'Andrea.



Secondo le antiche tradizioni, le notti del 28, 29 e 30 novembre erano considerate le più scure dell’anno, e chiamate anche “i bur ad’Sant’Andrè” i “bui “di Sant’Andrea, che cade appunto il 30 novembre.
Il riferimento è dovuto forse al fatto che i giorni si accorciano sempre più visibilmente : il solstizio invernale è vicino e lo era ancor più prima della riforma del calendario gregoriano.
Resta però difficile spiegare perché queste notti ,che non sono e non sono mai state le più lunghe dell’anno,vengano considerate le più buie.
Forse in virtù del concetto tradizionale che concentrava negli ultimi tre giorni del mese alcune valenze appariscenti del mese stesso.
Così come gli ultimi tre giorni di gennaio , detti “giorni della merla” sono considerati i più freddi, e gli ultimi giorni di marzo “I giorni imprestati” , rappresentano i più aspri meteorologicamente, gli ultimi di novembre sono indicati come i più bui.
Senza contare che un valido motivo può essere che in questo periodo il tempo è particolarmente brutto e nuvoloso e i giorni stessi sono così grigi e scuri che la notte sembra più lunga chi come è in realtà.
In proposito a ciò, dice un antico proverbio romagnolo:
“ Int i bur ad Sant’Andrè, o luna o lanterna ,se t’at vù sicurè e’ pè” ( nelle notti buie di Sant’Andrea, o luna o lanterna, se vuoi posare sicuro il piede”.

venerdì 26 novembre 2010

Il fuoco....."il prete e la suora".


Nella tradizione di molte parti d’Italia e in quella Romagnola in particolare, il focolare era il centro del microcosmo domestico e carico di significati simbolici e fiabeschi.
La tradizione più sentita e ancora attuale, per chi possiede un camino, è quella del “Ceppo Natalizio”,rappresentazione del fuoco solstiziale, portatore di energia e forza vitale.
La cenere del ceppo, poi, un tempo veniva sparsa sul tetto della casa e nei campi e i resti carbonizzati messi in capo alle viti per scongiurare la tempesta e la grandine.
Il fuoco nel camino una volta si accendeva tutto l’anno perché si cucinava solo sulle braci, e non lo si doveva mai spegnere ma lo si lasciava estinguere da solo, sotto la cenere .
Anche nel lasciare la casa di un podere per un altro,non si spazzava mai completamente il focolare dalla cenere dell’ultimo fuoco,ma la si ammonticchiava da un lato e lasciata lì e al momento di partire si staccava la catena del camino e la si attaccava subito appena entrati nella nuova casa,dove per prima cosa si accendeva un nuovo fuoco.
Il fuoco del camino era l’unica fonte di riscaldamento di una volta ,e solo la cucina ne veniva riscaldata, le altre stanze erano fredde e umide e l’unico modo per stemperare un po’ l’aria era quella di utilizzare i braceri e gli scaldini.
Secondo la tradizione contadina,il primo fuoco abbondante per procurare le braci per riempire gli scaldini e gli scaldaletto veniva approntato la sera di Santa Caterina, il 25 novembre, continuando fino all’ultima sera , di solito a fine febbraio.
Per scaldarlo,nel letto si metteva“il prete con la suora”, così veniva scherzosamente chiamata una intelaiatura di legno (prete)che sosteneva le coperte e conteneva lo scaldino con le braci (suora).
Queste cose le ho vissute anch’io da bambina e ricordo che ci si svestiva velocemente perché le stanze erano gelide ,ma poi ci si trovava in un letto così caldo che alla fine si cercava sollievo allungando i piedi fino in fondo e negli angoli,dove le lenzuola erano ancora piacevolmente fredde e ruvide.
Nella casa di campagna dei miei primi anni c’era un focolare enorme e caliginoso,con una cappa misteriosa che a volte emetteva suoni e fischi che a noi bambini facevano un po’ paura e non per niente i camini sono ancora oggi luoghi misteriosi dai quali passano Befane e Babbi Natale, a memoria delle favole e delle storie di quando dai camini scendevano lupi, streghe e folletti dispettosi.

domenica 21 novembre 2010

Le rigaglie di pollo con la salvia.


Quando i polli nascevano e crescevano solo nelle aie e nei cortili,oltre che riservare arrosti e straordinari bolliti,permettevano all’arzdora di preparare un tegamino speciale con le rigaglie: cuore, fegato ,stomaci ,cresta, barbigli e budelline di una pollastra o di un galletto, meglio ,ovviamente di due.
Oltre al resto ,le budelline di pollo le ho mangiate anch’io da bambina , è uno dei ricordi legati alla mia nonna, infatti era lei che cucinava e governava la casa.
Le budelline dovevano essere lavate e rilavate e rivoltate con l’aiuto di un fuso, poi venivano sbollentate nell’acqua calda ,tagliate a pezzi e con questi ricavare dei nodini.
Venivano poi unite alle altre rigaglie e cucinate con poco olio, sale, pepe e salvia, a volte con l’aggiunta di due o tre pomodori maturi spezzettati.
Sapori e profumi indimenticabili…..
Un’altra “golosità” di un tempo , della domenica, soprattutto,erano le zampette bollite , che purtroppo ci si litigava perché solo due ,e, se in pentola era finita una gallina, a volte in pancia aveva dei grappoli di tuorli , mini ovetti deliziosi che di solito si lasciavano ai bambini di casa.
Cose così…..cose di una volta !!

martedì 16 novembre 2010

Brustolini e vin brulè .


Dal libro di Grazia, “La cucina dell’arzdòra”, riporto questo gustoso capitolo su brustolini e vin brulè che in inverno rallegravano le veglie campagnole agli amici del vicinato che si radunavano nel caldo delle stalle.
I brustolini in pratica erano semi di zucca e ceci abbrustoliti sulla teglia.
Ma prima di offrirli bisognava coltivarli e prepararli con le dovute procedure.
I semi di zucca venivano estratti dalle zucche più grosse, raccolte mature e lasciate esposte al sole per giorni.
Poi si aprivano e se ne toglievano i semi, che ben lavati venivano messi ad asciugare al sole su assi di legno e girati spesso perché si asciugassero perfettamente.
Dopodichè si sarebbero conservati in un sacco di tela fino a che non arrivasse l’inverno ,la stagione giusta per le veglie.
I ceci, invece, venivano seminati in marzo e la pianta si lasciava crescere finchè i baccelli diventavano tutti gialli.
Allora , cavata la pianta, si portavano i baccelli al sole sull’aia per farli ben seccare e poi si battevano con al “zerli”, due bastoni ,uno corto e uno lungo, legati insieme.
Ben secchi e vallati , anche i ceci si riponevano nel solito sacco di tela e quando servivano , insieme ai semi di zucca, venivano via via abbrustoliti sulla teglia di terracotta messa sopra la brace del camino.
A parte si preparava un po’ d’acqua e sale grosso da versare sui semi quasi cotti per ammorbidirli ,ingrossarli, ed anche insaporirli.
E da bere cosa di meglio , soprattutto se l’inverno era pungente , se non un buon brulè bollente ,che riscalda dissetando?
Per prepararlo si metteva il vino in una pentola posata sopra il fuoco del camino e vi si aggiungevano scorze di limone e arancio, chiodi di garofano , cannella e zucchero.
Quando il tutto cominciava a bollire , con uno zolfanello vi si dava fuoco per qualche minuto, che così “Us svampèva”, svaporava , perché bruciando avrebbe perso gradi e tranquillamente lo avrebbero potuto gustare anche i ragazzini che fossero alla veglia.
Vi era scarsità e miseria, ma con poco,in questo modo, nel caldo delle stalle si dimenticavano i disagi e ci si riuniva con piacere ed allegria.

sabato 13 novembre 2010

Il formaggio che vive due volte.



Il formaggio di Fossa per molti decenni è stato solamente un prodotto locale, ma il suo particolare gusto col tempo lo ha reso un prodotto ricercato ed interessante e anche molto imitato.
Le prime notizie certe sul formaggio di Fossa risalgono al XV secolo quando si narra che Alfonso D’Aragona ,figlio del Re di Napoli , sconfitto in battaglia dai Francesi , chiese ed ottenne ospitalità presso Girolamo Riario , signore di Forlì.
Nella impossibilità di essere totalmente mantenute,le truppe Aragonesi attuarono numerose scorrerie nelle campagne del circondario ,tanto che i contadini furono costretti a nascondere le provvigioni di ogni genere.
Nel novembre seguente,quando i soldati fecero ritorno a Napoli, i contadini riportarono alla luce le vettovaglie nascoste nelle fosse naturali e con stupore osservarono che i formaggi avevano mutato il loro aspetto ed erano diventati particolarmente saporiti e gustosi.
A Sant’Agata Feltria le fosse furono ricavate nelle case patrizie ,scavando la roccia arenarica,ed erano destinate alla conservazione dei cibi: si presentano nella forma classica ad otre o a fiasco e hanno dimensione media di cm.260 nel diametro di base , cm.270 di altezza e cm. 65-70 all’imboccatura.
Alcuni giorni prima dell’infossamento si brucia della paglia all’interno della fossa per togliere l’umidità e per eliminare i germi , poi si procede al rivestimento delle pareti con uno strato di 10 cm. di paglia sostenuta da intelaiature di canne.
Sul fondo vengono sistemate tavole di legno sollevate di 10 cm dal pavimento e si inizia con l’infossamento dei formaggi: questi sono già stati messi in numero di 8-10 all’interno di sacchetti di tela bianca e così sistemati vengono adagiati uno sull’altro fino ad occupare tutto lo spazio disponibile fino all’imboccatura.
Alla fine le fosse vengono chiuse e sigillate con il gesso.
Nei tre mesi di stagionatura il formaggio subisce delle trasformazioni strutturali e microbiologiche in condizioni di umidità e temperatura ideali, e dopo 90-100giorni quando le fosse vengono riaperte si estrae un prodotto dalle caratteristiche forme irregolari , privo di crosta , con pasta dura o semidura di colore giallo paglierino.
Questo è il formaggio di Fossa, dal sapore leggermente piccante e dall’inconfondibile aroma.

martedì 9 novembre 2010

I lavori di Novembre



Dal libro di Grazia “La campagna appena ieri”, (da cui il nome del Blog),stralcio queste righe che descrivono la vita e i lavori di una volta durante il mese di Novembre.
“Già questo mese, se le semine erano del tutto ultimate, induceva il contadino alla tranquillità.
Lo stesso clima leggermente nebbioso, e quindi ancor mite,permetteva sonni più lunghi e soltanto verso le sette e mezzo si cominciava a rigovernare la stalla, verso le dieci si faceva colazione, che doveva essere abbondante perché per molti avrebbe sostituito il pranzo di mezzogiorno.
Sembrava che ci fosse poco da fare nei campi, il lavoro invece c’era, ma diverso e meno assillante.
Solo chi aveva i cachi doveva fare un altro raccolto, l’ultimo dell’anno con quello delle nespole.
Tutti iniziavano le potature, che erano lente e si protraevano , per ragioni diverse sino a Febbraio e anche più in là.
Quando non pioveva ,anche in mezzo alla nebbia si svettavano le siepi,di cui si tagliavano le cime fino a pareggiarle.
Poi si cominciava la lunga potatura degli alberi da frutta , bisognava diradare le piante altrimenti il raccolto non sarebbe stato regolare e gli alberi sarebbero cresciuti male ,privi di vigore.
Per le viti occorreva ancor più tempo e molta abilità.
Dopo potato ,lungo i filari e nei frutteti, bisognava raccogliere i “sarmenti”.Si facevano delle fascine legate coi vimini dei gelsi e queste poi servivono per accendere il fuoco nel camino e per scaldare il forno dove si cuoceva il pane.
Quand’erano giornatacce, con la pioggia,si stava nella stalla o sotto il portico ad accomodare sedie,scale e scaletti ,a fare cesti e a rifare i manici a zappe, vanghe e forcali.
Le donne, invece ,a Novembre ,cominciavano a filare con la rocca la canapa e la stoppa,solo qualcuna aveva la lana ,che il mese dopo si cominciava a tessere.In più bisognava “rappezzare" per l’intera famiglia calze, camicie, pantaloni ,corpetti ,e persino le mutande….”

sabato 6 novembre 2010

L'osteria, posto per soli uomini.



“La vecchia osteria di una volta non era luogo da donne”.
Così inizia l’articolo di Mario Lapucci dal quale attingo queste notizie sulle osterie di paese e di campagna , luoghi ormai scomparsi e ritrovo di soli uomini.
Soltanto le signore di città,quelle svergognate borghesi , osavano andare al caffè o al circolo con i mariti ai quali si permettevano perfino di camminare a fianco per la strada.
L’antica morale contadina e il gallismo della gente di Romagna , imponeva alla donna di stare al suo posto e per strada di camminare un po’ indietro al suo uomo, alla sua sinistra.
Eppure ci sono state in Romagna ostesse famose , immortalate in romanzi e racconti ,ma erano lì soltanto per servire i clienti.
Le osterie di un tempo erano quasi sempre arredate con lunghe tavole affiancate da panche, più raramente si vedevano tavolini e sedie.
L’oste stava dietro al suo bancone ,in fondo alla stanza sempre fumosa , con un grembiule vagamente pulito alla vita intento a versare il vino richiesto nei misurini di vetro o nelle “mezzette piombate” col timbro dell’ufficio metrico.
A fianco teneva lo scaffaletto delle carte da gioco,e faceva i conti col gesso spesso sul piano del bancone , sul quale ogni tanto passava uno straccio, anch’esso poco pulito.
Alcune osterie avevano il gioco delle bocce sotto una pergola ombrosa e i giocatori si sfidavano in epiche partite che avevano come posta regolarmente il litro di vino ,seguiti dagli apprezzamenti o dalle critiche degli spettatori.
In altre si poteva trovare anche da mangiare: cibi semplici , intingoli di coniglio, umidi, trippa, minestre con fagioli o ceci, formaggio e salame, cibi che ben si accompagnavano con un bel bicchiere di vino rosso.
Alla sua stagione non era difficile trovare cocomeri, tenuti in fresco nel pozzo e spaccati sul tavolo con un deciso colpo di coltello.
In queste osterie gli avventori, nel bicchiere di vino , cercavano per lo più una consolazione per i guai della vita, la ricorrente miseria e i litigi in famiglia ; si sfogavano i rancori, si raccontavano i problemi , si facevano interminabili partite a carte, ma si concludevano anche affari e contratti di raccolti e vendite di bestiame.
E se poi capitava il forestiero era anche una buona occasione per avere notizie del mondo.

mercoledì 3 novembre 2010

In viaggio nei luoghi del "Trenino Rosso"



Durante le feste di Ognissanti, io, Grazia e suo marito Franco,abbiamo fatto un viaggio sul “Trenino del Bernina”: da Tirano a St. Moritz; da qui a Coira, capitale dei Grigioni ; da Coira a Maienfeld, un delizioso paese dove la scrittrice Johanna Spyri passava le vacanze da bambina e dove ha creato il personaggio di Heidi.
Abbiamo attraversato La Valposchiavo ricca d’acqua con le cime dei monti che si specchiano nel lago di Poschiavo, mentre sui pendii esposti al sole abbiamo ammirato gli estesi terrazzamenti coltivati a vite che formano un regolare infinito ricamo.
Più avanti, in prossimità del Passo del Bernina si incontrano in successione tre laghi, il Lago Bianco , il Lago Nero e il Lago Piccolo, quest’ultimo ,situato abbondantemente sopra i 2000 metri ,nel viaggio di ritorno l’abbiamo trovato completamente ghiacciato.
Dopo il passo si percorre la Val Bernina, dominata da foreste di pini e larici e ricca di estesi pascoli.
Dopo St. Moritz, è la volta della tratta dell’Albula,che in poco più di due ore conduce a Coira (Chur),in un susseguirsi di villaggi, campi coltivati , boschi di larici , abeti rossi e pini cembri dai bellissimi colori autunnali e pascoli punteggiati di mucche e pecore.
Da Coira in 15 minuti si arriva a Maienfeld, dal quale parte un sentiero in mezzo a vigneti ,a pascoli e versanti ricoperti di piante dagli stupendi colori autunnali che in quaranta minuti di tranquilla passeggiata conduce alla “casa di Heidi”, la casa dei nonni della scrittrice svizzera Johanna Spyri che nel 1880 creò il personaggio della famosa orfanella.
E’ una autentica e antica casa di montagna di pietra e legno, e varcare la sua soglia è come fare un viaggio a ritroso nel mondo contadino svizzero del tardo XIX secolo.
Dalla cantina-dispensa si sale nel soggiorno rustico che contiene una grande stufa che dalla parte dell’ingresso funzione da forno per il pane ;di lato c’è una delle camere da letto arredata semplicemente come una volta e la cucina con una massiccia stufa a legna a tre fornelli.
Tanti e vari gli oggetti antichi di uso quotidiano che vi sono conservati: strumenti per lavorare il legno, per il lavoro nei campi, per fare il formaggio, per raccogliere la frutta e il fieno, oggetti di cucina e biancheria semplice e rustica nelle camere.
Anche il sottotetto è sfruttato, sia come luogo di lavoro che di dispensa ;c’è un’altra camera da letto, e in un angolo il tavolino dove la scrittrice creava le storie di Heidi e dove è conservata una collezione dei suoi libri tradotti in molte lingue.
Luoghi stupendi: pascoli ondulati, alberi gialli ,rossi, arancioni, qua e la ancora verde cupo, vigne rossiccie e basse, casette da fiaba e paesi ordinati e accoglienti.
E nel viaggio di ritorno , neve abbondante, fresca e vaporosa che nella notte aveva coperto monti e versanti e reso indimenticabile il paesaggio nel quale l’unica nota di colore era,per lunghi tratti, il dispiegarsi delle carrozze “del trenino rosso”.

La prima immagine è della Val Poschiavo,la seconda è la"casa di Heidi".