venerdì 30 dicembre 2011
Buona fine e buon inizio.
L’ultimo giorno dell’anno la Chiesa l’ha dedicato a San Silvestro, il Papa sotto il quale l’Impero Romano da pagano divenne cristiano.
Come in tutte le feste che cadono nel periodo solstiziale, come leggiamo nel Lunario di Cattabiani ,anche a Capodanno si traggono presagi per l’anno venturo.
Per esempio in molte parti d’Italia si dice che se l’anno comincia di mercoledì o di domenica sarà buono, di venerdì cattivo…
Quanto agli anni,i pari porterebbero un raccolto abbondante, mentre sarebbero sfortunati quelli in cui compare il sette , un suo multiplo o il numero tredici.
Riti usati e abusati sono l’uso di mangiare noci, uva e lenticchie, indossare qualcosa di nuovo o di rosso,baciarsi sotto il vischio.
In quanto al primo giorno dell’anno, un tempo si stava molto attenti alla prima persona che si incontrava per strada : non doveva essere una donna , o un povero o un vecchio, perché erano presagi infausti.
Anche l’anno bisestile era considerato poco propizio, e dicevano: “quando l’anno vien bisesto,non fan bachi e non fanno innesto”.
Una volta, nelle campagne ,la mattina presto del primo giorno dell’anno era facile trovare gruppi di
bambini che andavano casa per casa a “dè e’ bòn àn”…
Bussavano alle porte dicendo: “bon dè, bon àn, la fortuna par tòt l’àn”e in cambio degli auguri ricevevano qualche dolce, qualche noce o un soldino.
mercoledì 28 dicembre 2011
Sua Maestà il Maiale
Una volta l’uccisione del maiale avveniva solitamente tra il 13 dicembre, San’Andrea ,e il giorno di Sant’Antonio Abate, anche se qualcuno preferiva farlo nel periodo di Carnevale.
Il consumo delle carni, o meglio, di tutto il maiale, non ha mai avuto momenti di stanca.
Dai Romani in poi, lo si continua a cucinare in tutti i modi, e lardo e strutto sono stati usati come condimento fino ai nostri giorni, anche se oggi molto di meno.
Il primo trattato sui salumi italiani la dobbiamo agli storici del XVI sec. Teofilo Folengo e Tommaso Garzoni,che annotano nella loro mappa le soppresse napoletane, le salsicce toscane,il salame piacentino,la mortadella cremonese diversa da quella modenese che veniva stufata e si mangiava con legumi e frutta macerata….
Alcune ricette antiche si sono salvate,altre col tempo e con l’avvento di nuove mode e nuovi appetiti si sono dimenticate, come l’usanza di lessare il maiale, tanto che il brodo “lardiero”si è ormai perso nei secoli sei secoli.
Negli ultimi decenni anche il sangue del maiale non viene più utilizzato come una volta per sanguinacci cucinati a tocchetti con la cipolla come in Romagna o in saporite schiacciate come in Toscana.
Oggi , anche nelle campagne, sono rimasti in pochi a “smettere” il maiale in casa per conto proprio, è un lavoro complicato , ci vuole spazio e anche un luogo idoneo per conservare i salumi e i prosciutti.
Adesso non c’è più la necessità di fare una scorta di cibo per tutto l’anno come avveniva al tempo dei nostri nonni:allora uccidere il maiale era una vera e propria faccenda di sopravvivenza, perché era quasi la sola carne, insieme a qualche gallina o coniglio, che assicurava un buon nutrimento quando si cominciavano i lavori faticosi da aprile in poi.
domenica 25 dicembre 2011
La data del Natale
Secondo la tradizione, il Cristo sarebbe nato il 25 dicembre del 743° anno dalla fondazione di Roma, considerato il primo della nostra era.
Ma quando Gesù sia effettivamente nato non lo sapiamo.
Nel Lunario di Cattabiani viene comunque evidenziato il fatto che il giorno 25 dicembre non è storicamente sostenibile ,perché nel Vangelo di Luca si racconta che in quel periodo nelle campagne di Betlemme alcuni pastori vegliavano di notte facendo la guardia al gregge.
Siccome i pastori ebrei partvano per i pascoli all’inizio di primavera tornando in autunno, è evidente che il Cristo nacque tra la fine di marzo e il primo autunno; tant’è vero che fino al principio del IV secolo il Natale veniva festeggiato, secondo i luoghi,o il 28 marzo o il 18 aprile o il 29 maggio.
Quella del 25 Dicembre è una data convenzionale: nella seconda metà del III secolo si affermò nella Roma pagana il culto del Sole e in suo onore l’imperatore Aureliano aveva istituito una festa al 25 dicembre, il Natalis Solis Invicti.
Questo Natale del Sole Invitto celebrava il nuovo “Sole rinato” dopo il solstizio invernale con giochi e cerimonie grandiose.
Molti cristiani erano attirati da queste cerimonie spettacolari , così la Chiesa Romana, preoccupata che questi riti oscurassero la diffusione del cristianesimo , pensò bene di celebrare nello stesso giorno il Natale del Cristo.
La festa, già documentata dei primi decenni del secolo IV,si estese, a poco a poco, al resto della cristianità.
Ma nel secolo V il Natale del Sole Invitto era ancora vivo, tant’è vero che papa Leone Magno ammoniva i fedeli a non partecipare ai suoi riti pagani e a non inchinarsi all’astro , come facevano in molti, prima di entrare in chiesa.
domenica 18 dicembre 2011
le filastrocche di Natale.
In molte famiglie, una volta,per Natale, si insegnava ai bambini di recitare dei sermoni o ,come le chiamavano in Romagna,“al pasturèli” ,per averne poi premi o regali.
Ecco due esempi di queste antiche filastrocche :
La mi mama per Nadèl
La m’à prumess e’ pèn spezièl,
di zucarèn e dal zambèli
e tènt ètar robi beli.
La mi à prumess a cundiziòn
Ch’imparess un bel sarmòn.
Tota nòta a l’ò sugnè
Stamatena am so livè
E’ sarmòn a l’ò imparè.
A j ò det e mi sarmunzèn
Mama, cl’la mi daga i zucarèn.
La mia mamma per Natale/mi ha promesso il pan speziale/zuccherini e ciambelle/e tante altre cose belle/.Mi ha promesso a condizione / che imparassi un bel sermone/.Tutta notte l’ho sognato/, stamattina mi sono alzato/ il sermone l’ho imparato/.Ho detto il mio sermoncino/ mamma mi dia lo zuccherino.
Sta nota a mezanòtt
Un’ora a nènz e’ bòt,
l’è ned un Bambinèl,
tra e’ bò e l’asinèl.
Con e’ su fiè lò i l’arischèlda,
San Jusèf l’è lè che guerda;
la su mama la l’fàsa,
la i strènz i su pinèn
Gesù mio, che bel Bambèn!
A l’è d’intòran tot fa ligrèza,
tot adòra e Bambinèl;
i pastùr i sona la piva,
la piva e ancora e pivèn,
i fa ligrèza a e’ bel Bamben.
E’ sarmòn a l’ò finì:
la mi mama ,dèm un bajoch,
o dasiman du, se un l’è tròp!
Stanotte a mezzanotte/un’ora prima del tocco/ è nato un Bambinello/ tra il bue e l’asinello/.Con il loro fiato lo riscaldano/,san Giuseppe è lì che lo guarda, la sua mamma lo fascia/ gli stringe i suoi piedini/: Gesù mio, che bel Bambino./ Lì intorno tutti fanno festa,/ tutti adorano il Bambinello/,i pastori suonano la piva/ la piva e lo zufolino/ fanno festa al bel Bambino./ Il sermone l’ho finito/
Mamma datemi un baiocco/ o datemene due, se uno vi sembra troppo.
venerdì 9 dicembre 2011
La cinciallegra.
La cinciallegra è il tipo di cincia che in giardino si vede più frequentemente, soprattutto in autunno e in inverno, quando, insieme ad altre specie di cince ,si esibiscono in un vero e proprio spettacolo di acrobazie e volteggi velocissimi.
La cinciallegra è la più grande delle cince ( arriva a una lunghezza di 15 cm ),il suo canto è semplice e le sue note limpide e chiare assomigliano a suoni di campanellini.
Le cince difendono il loro territorio tenacemente e il maschio , se vuole conquistare una femmina, le mostra tutti i luoghi possibili del suo territorio dove è più idoneo e sicuro nidificare.
E’ la femmina che alla fine sceglie,così come è sempre lei che fa il nido, dove deporrà da 6 fino a 14 uova.
E quando nascono i piccoli, ecco che comincia il vero e duro lavoro per i genitori: quello di fare avanti e indietro anche più di 600 volte al giorno per sfamare i figlioletti.
La cinciallegra si ciba di insetti e delle loro larve, di ragni,di piccoli lombrichi e di semi ,bacche e frutti vari.
Nei nostri giardini sarà più facile vedere saltellare le cinciallegre in terra o nel prato, al contrario delle cinciarelle che invece si vedono più spesso in equilibrio sui rametti degli alberi mentre becchettano qualcosa a testa in giù.
sabato 3 dicembre 2011
Magica salvia.
La salvia, insieme al rosmarino, è da sempre l’erba aromatica più usata in cucina , anche quella romagnola.
Si usa con tutte le carni, per cuocere il pesce al forno,per la cacciagione,nei primi piatti, in certi ripieni e per insaporire l’olio e l’aceto.
Un tempo, quando non c’era la possibilità di comprare medicine, la salvia era usata in tanti medicamenti casalinghi che si tramandavano da madre in figlia.
Infatti un vecchio proverbio dice: “Chi ha salvia nel suo giardino, non ha bisogno del dottore”.
Il decotto di salvia fatto nell’acqua bollente giovava in caso di dissenteria, mentre il decotto di alcune foglie fatto col vino era consigliato per la tosse ostinata.
Con gli infusi di salvia si curavano infezioni della bocca e se ne facevano gargarismi in caso di mal di gola.
Con le foglie poi ci si pulivano i denti strofinandoli , medoto questo antichissimo.
Insomma la salvia è una pianta quasi salvifica, , tanto che un proverbio dice” Se molto vuoi campare, salvia hai da mangiare”e la Scuola Salernitana insegnava: “
Perché l’uom morrà cui fresca nel giardin la salvia cresca? L’uso della salvia i nervi allena all’uso,il tremito frena delle mani,ed anche aiuta a scacciar la febbre acuta…..”
Infine una ricetta,il risotto con la salvia. Per 4 persone:
Tritare una cipolletta e farla appassire in due cucchiai d’olio,unire 300 grammi di riso ,farlo tostare e poi bagnarlo con 1 bicchiere di vino bianco secco.
Cuocere il riso aggiungendo brodo bollente a poco a poco
e intanto spezzettare 6 foglie di salvia e farle rosolare in un po’d’olio .
Unire la salvia al riso ormai pronto,mantecare con 2 noci di burro
e due cucchiai di parmigiano.
Lasciare riposare un paio di minuti e servire nei piatti spolverando ancora con un po’di formaggio.
giovedì 1 dicembre 2011
Dicembre gelato non va disprezzato.
In dicembre i contadini ormai facevano scarsi lavori nei campi per via del cattivo tempo e passavano molte ore nelle tiepide stalle ,mentre gli anziani guardavano il cielo trovando qualche segno che presagisse pioggia o neve.
Se si annuvolava sopra la brina, per esempio,dicevano che era segno di pioggia: quand ch’è u s’anòvla sora la bròina, e piòv ninz che sia matòina.
Anche la Luna dicembrina era foriera di pioggia, come dice quest’altro proverbio: La Lòna ad dizembar quand che la vnirà,piò bagnèda che sòta la sarà.
Ma “dicembre gelato non va disprezzato” perché il freddo fa bene alla campagna e poi ci si può consolare con il detto: “dicembre ogni cosa-fa sacra e preziosa”.
Infatti dicembre conduce al Natale ,passando per feste di Santi e ricorrenze varie che sono elencate in questa vecchia filastrocca che Livio Carloni data al 1946.
Il quattro Santa Barbara beata,
il sei San Nicolò che vien per via,
il sette Sant’Ambrogio di Milano
e l’otto Concezion Santa Maria;
il dodici convien che digiuniamo,
il tredici ne vien santa Lucia,
il ventun San Tomè: la Chiesa canta
il venticinque abbiam la Festa Santa.
martedì 22 novembre 2011
verso l'inverno
Il mese di novembre è il primo mese veramente freddo ,quello che dà inizio al cattivo tempo, alle nebbie e alla pioggia,per cui una volta era una stagione che preoccupava , soprattutto i braccianti, che difficilmente in questo mese trovavano lavoro.
Comunque sia, un proverbio dice: “Giorno bello o giorno brutto, a novembre muore tutto”.
Le giornate cominciavano ad essere buie e nelle case coloniche la luce era scarsa;la candela o la lumina ad olio erano sempre messe accanto al telaio, che d’inverno lavorava a pieno ritmo.
“Da San Martoin a Nadèl ogni purèt e’ stà mèl” dice un altro proverbio, mentre un altro ancora recita: “Par Santa Caterina o che piòv ,o che nòiva, o che broina, o che tira la curòina e u j è la paciaròina”.
Un tempo , nelle campagne, si cominciava a scaldare il letto dal giorno di Santa Caterina -il 25 novembre-, un mese prima di Natale, fino alla fine di febbraio, poveri o benestanti che fossero….
Infatti per i contadini di una volta l’inverno si calcolava da Santa Caterina fino al primo marzo, e in molti paesi della Romagna la festa di Santa Caterina era la festa delle ragazze, alle quali si regalavano castagne e torrone.
Inoltre in questo mese , come durante tutto l’inverno ,dato che si lavorava poco e servivano meno energie,si preparavano solo due pasti al giorno: la colazione a metà mattina, tra le nove e le dieci e la cena verso le cinque di sera…..eccezioni si facevano solo per le feste di Natale e per la settimana di carnevale.
“Novembar e’ trèma tot, dizèmbar e’ spless l’an”…..e dopo dicembre , dopo le feste di Natale, finalmente ci si rallegrava con l’uccisione del maiale, un avvenimento atteso da tutte le famiglie perché si riempiva la dispensa ed era l’occasione per mangiare un po’ di carne, cosa che non succedeva spesso….
lunedì 14 novembre 2011
Da Ginestreto a Massamanente.
La breve valle del torrente Uso, che si inserisce tra le più grandi del fiume Marecchia e del fiume Savio, è ricca di suggestioni ,di splendidi paesaggi e di inimitabili strutture architettoniche.
Da un opuscolo scritto da Fabio Molari, attento testimone della memoria, riporto questo brano che descrive un tratto del sentiero ,sul crinale ,che porta da Ginestreto a Massamanente.
“Partiamo dunque da Ginestreto, il colle delle ginestre,arbusto dalla lunga e intensa fioritura gialla.
Anticamente questo territorio era diviso in due frazioni: Ginestreto propriamente detto e Morsano, raccolto attorno alla vecchia pieve.
L’abbandono quasi totale di questo paesino ha portato alla scomparsa della pieve di San Martino in Morsano ed al crollo di importanti strutture edilizie di origine rurale.
Anche del castello non resta più niente, gli ultimi ruderi furono abbattuti negli anni’40.
Attualmente resta la chiesa dedicata a Sant’Apollinare, una costruzione che risale alla fine del 1700.
Negli ultimi anni questa località è assurta a notorietà nazionale per la presenza di una moderna discarica.
Alle spalle di Ginestreto, in direzione della valle del Marecchia,possiamo osservare il monte Uffogliano, con i suoi castagni secolari, uno dei pochi boschi presenti in zona con una superficie consistente.
Sulla sommità del colle troviamo i resti di un castello e da qui un sentiero porta a Casano,un piccolo mondo di grandi case di pietra, dove domina il silenzio.
Risalendo la parte orografica destra della valle dell’Uso giungiamo a Massamanente, che sul colle Siepi ospita ancora le poche mura del castello malatestiano , di cui resta solo una stanza interrata, forse le prigioni.
Massamanente è una realtà agricola di case sparse in mezzo ai prati più belli di questa Romagna quasi feltresca.
In primavera i grandi campi si colorano di un verde brillante ,che li fa assomigliare ad una piccola Irlanda.
In questa frazione possiamo ricordare la chiesa dedicata a San Paterniano”.
(Nella foto: Chiesa di San Paterniano).
domenica 6 novembre 2011
Pere coscia e mele zitelle.
Nei cataloghi dei vivai dell’ottocento, per descrivere le mele, le pere o l’altra frutta , sembra non si usasse mai l’aggettivo “bello” o “di bel formato” : i requisiti che più interessavano erano la produttività della pianta , il sapore dei frutti ,ma soprattutto la “serbevolezza”, cioè la proprietà di conservarsi a lungo.
Era quello un fattore molto importante, in un mondo ancora privo di celle frigorifere e di congelatori.
Dai primi decenni del novecento, invece, le cose hanno cominciato a cambiare, la bellezza e la pezzatura dei frutti hanno cominciato ad avere sempre più importanza e di scelta in scelta,a forza di scartare certe varietà,siamo giunti a quegli insipidi e perfetti capolavori che oggi appaiono nelle vetrine e sui banchi dei fruttivendoli.
Oggi però si cerca di correre ai ripari , ricercando antiche varietà che ,oltre ad essere quasi sempre più resistenti alle malattie , hanno il merito di farci riscoprire i sapori e i profumi di una volta.
Rintracciare e coltivare nuovamente queste specie è un compito importante , anche per garantire la conservazione di un patrimonio genetico che potrà servire per creare nuovi ibridi più resistenti alle malattie.
Alcune specie si rinvengono spesso in modo occasionale ,veri cimeli di una arcaica agricoltura locale.
Un tempo, soprattutto di mele e pere ,vi erano innumerevoli specie, dai nomi anche stravaganti, come la “Mela pera”, allungata ,acidula ,aromatica e croccante; la “Mela gelata”,che si conservava a lungo per tutto l’inverno; la” Mela zitella”, coltivata in collina e sulle alture; la “Mela limoncella”dal vago sapore di limone.
Fra le pere antiche ricordiamo la “Pera moscadella”, pera estiva,dolce ,dal sapore che ricordava l’uva moscata; la “Pera prosciutto”, piccola pera invernale così chiamata perché di colore rosso mattone,e poi la “Pera butirra” e ancora la “Pera coscia di monaca”…..insomma tutta una lunga serie di frutti che speriamo ci vengano restituiti.
mercoledì 2 novembre 2011
Il fungo orecchione.
Cercare funghi nei boschi è sempre una bella avventura, purchè si sia competenti e si abbia una buona conoscenza delle varie specie , velenose e commestibili.
Invece,una volta, in campagna , i funghi si coltivavano, o per meglio dire, si creava una zona adatta alla loro crescita spontanea .
Quando ero bambina ricordo molto bene mio nonno che preparava con cura una zona apposta per questa coltura, che di solito era lungo il filare di una piantata di vite.
Per prima cosa vangava ben bene il terreno per la profondità della vanga, poi vi spargeva del letame di coniglio misto a parecchia paglia e sopra tutto un certo strato di terra leggera.
Teneva la zona sempre umida e dopo qualche tempo cominciavano a nascere i primi funghi,gli orecchioni,che lui chiamava “urcèli” perché avevano appunto la forma di orecchio.
Ricordo le mangiate di questi funghi che facevamo….specialmente cotti sulla graticola!
E soprattutto senza avere paura che fossero velenosi.
lunedì 24 ottobre 2011
Nessuno fischietta più !?
Una volta era facilissimo imbattersi in gente che fischiettava.
Un tempo, specialmente in campagna, fischiare era un’abitudine comunissima: si fischiettava mentre si zappava, si potava, si mungeva e mentre si facevano tutti i lavori nei campi.
Anche i birocciai erano soliti fischiare motivetti mentre sedevano sui loro carri tirati dalle bestie,soprattutto di notte, per tenersi svegli e rompere il silenzio .
Naturalmente era roba da uomini, per le donne fischiare era considerata una cosa disdicevole e indecorosa, una dimostrazione quasi di sfacciataggine….
In fondo fischiare è un fatto personale, spontaneo,libero,più di cantare: è un suono intimo , che risuona nella testa, che fa evadere, dimenticare.
Fischiare è un atto che si fa per se stessi e ha in se molta creatività.
Oggi invece quasi nessuno fischietta più , nemmeno per strada, nemmeno quando passeggiano o se ne vanno girelloni in bicicletta.
Forse , come ho letto in un articolo in proposito questa settimana, c’è troppo rumore, troppa frenesia, oppure semplicemente se ne è persa l’abitudine, come se ne sono perse tante altre…..
E a proposito di fischiettare ,come non citare la strofa finale della poesia di Carducci, San Martino, che oltretutto è anche in tema di stagione?
…..sta il cacciator fischiando,
su l’uscio a rimirar
tra le rossastre nubi,
stormi d’uccelli neri
com’esuli pensieri
nel vespero migrar.
lunedì 17 ottobre 2011
La caccia.
Una volta i contadini erano in buona parte cacciatori, e non certo per passatempo, ma per interesse: la maggior parte di cacciagione, infatti, veniva venduta per acquistare altri prodotti e solo chi aveva buone possibilità economiche lasciava gli uccelletti nella cucina di casa.
A caccia vi andavano la mattina presto,col cane o senza ,ognuno aveva i suoi posti dove sperava di trovare dei volatili, oppure costruivano un capanno di frasche nei pressi di boschetti di querce e lì aspettavano pazientemente …
Sparavano ai passeri ,ai franzoni,ai tordi, alle beccacce…a tutti quelli che passavano ;in certe mattine buone ne facevano delle belle “ruzèdi”, cioè delle lunghe filze , che poi vendevano alle osterie , tranne qualcuno da portare a casa .
La vendita degli uccelli era un buon ricavo durante i mesi invernali , quando non c’erano prodotti da vendere di altro genere , e c’era un mercato vivacissimo di selvaggina, perché anche chi non andava a caccia non voleva rinunciare al suo tegame di uccelletti.
Ricetta contadina degli uccelletti al tegame.
Spennare bene e pulire gli uccelletti delle interiora e al posto di queste mettere una foglia di salvia.
Disporli in un tegame preferibilmente di coccio con un po’ d’olio, sale, pepe,e un po’ d’acqua.
Rosolare girandoli spesso e verso fine cottura aggiungere un mezzo bicchiere di vino bianco da far evaporare.
Vanno serviti ben rosolati e una volta si mangiavano afferrandoli per il becco e solo quello doveva rimanere.
Per alcuni addirittura era un sacrilegio sviscerarli ….infatti i vecchi capannisti e tutti i buongustai di un tempo si sarebbero scandalizzati di fronte ad uccelletti “privati delle interiora”, perché molti di loro cuocevano allo spiedo anche i tordi interi!
lunedì 10 ottobre 2011
Tempo di castagne
Ottobre si sa, è il mese delle castagne.
Una volta il castagno era un albero benedetto per i contadini delle colline, e, nelle zone dei castagneti ,tutta la popolazione era mobilitata per la raccolta.
Inoltre questo albero, come ci ricorda il Pascoli nella poesia “Il castagno”, non è solo generoso dei suoi frutti ,ma un tempo le sue foglie venivano conservate e usate come lettiera nelle stalle invece della paglia e il suo legno veniva raccolto per scaldare le case ,per farne cesti o mobili rustici.
Tra i più comuni modi di cuocere le castagne ricordiamo le “pelate”, castagne sbucciate e cotte in pochissima acqua coperte da un telo ; le “ballotte “,lessate in acqua leggermente salata e,per chi piace, con l’aggiunta di semi di finocchio;infine le “caldarroste” simbolo di festa, di ritrovo e allegria durante le fiere, le sagre e le lunghe veglie invernali , ieri come ancora oggi…..
Molto buona è anche la marmellata di castagne:
Cuocere dei marroni sbucciati e passarli al passaverdure.
Mettere al fuoco in una pentola 700 gr. di zucchero e farlo sciogliere con un bicchiere d’acqua lasciando sobbollire 5 minuti, aggiungere 1 kg. di polpa di castagne e odore di vaniglia.
Cuocere il tutto a fuoco lento mescolando spesso per circa 30-40 minuti ,aggiungere alla fine un bicchierino di rhum e poi invasare.
Chiudere i barattoli e capovolgerli per sterilizzare il coperchio, lasciandoli in questa posizione per almeno 5 minuti.
venerdì 7 ottobre 2011
La Saba e il Savòur
L’uva non solo diventa vino,ma con il mosto si possono preparare ancora oggi dei prodotti capaci di vincere il tempo e di arricchire la nostra dispensa.
Con il succo d’uva non fermentato , il mosto, nei secoli si è perpetuata un po’ ovunque l’usanza di farne salse e mostarde per condimento a varie pietanze.
Uno di questi preparati è la Saba, o Sapa che dir si voglia .
Si ottiene mettendo in una grande recipiente 10 litri di mosto fresco e tenendolo a sobbollire a fuoco basso per parecchie ore, finchè si riduce a un quarto del volume iniziale.
Se ne ottiene uno sciroppo zuccherino che ,messo nelle bottiglie ben chiuse ermeticamente, può durare per più anni senza perdere le sue qualità.
Stesso procedimento per il Savòur ,dove al mosto fresco si aggiungono pezzi di frutta duretta come mele, pere, cotogne, noci e fichi tritati e un po’di buccia grattugiata di limone e arancia: poi si fa cuocere il tutto piano piano per 4-5 ore .
Alla fine se ne ricava una specie di confettura che accompagna ottimamente il bollito e i formaggi o si mangia stesa sul pane.
Sono preparazioni che ormai nessuno fa più in casa, occorre troppo tempo e sono sapori non sempre apprezzati, al massimo se ne compra un vasetto in drogheria per curiosità, ma non è certo come quello che cuocevano le nostre nonne, ognuna gelosa della propria ricetta che passava di madre in figlia.
lunedì 3 ottobre 2011
Tempo di tartufi.
Tempo di tartufi e tempo di fiere e mercati di questo nobile tubero, come la Fiera di sant’Agata Feltria inaugurata in questi giorni.
E appunto questa è l’epoca di raccolta del Tartufo bianco pregiato, il Tuber Magnatum, vale a dire dei magnati, dei ricchi signori ,così come venne definito da Pico nel 1788.
Questo tartufo si riesce a trovarlo dalla tarda estate fino al primo inverno , dalla pianura fino ai 600 metri di altezza sul livello del mare, in terreni con rilevante umidità.
Le piante presso cui riesce ad adattarsi sono la quercia , il tiglio il pioppo nero e bianco il salice da vimini e il carpino nero.
La raccolta del tartufo è libera nei boschi e nei terreni non coltivati, sempre che vengano rispettate le regole che caratterizzano questa attività: l’ausilio di un cane addestrato a questo scopo e l’utilizzo di un apposito attrezzo per lo scavo, limitato alla zona ove il cane lo ha segnalato.
Il tartufo è un prodotto molto deperibile e pertanto è fondamentale un’attenta conservazione.
Il metodo più comune è mettere i tartufi ,avvolti ad uno ad uno in carta da cucina, in un barattolo a chiusura ermetica da tenere in frigorifero:il tartufo nero può mantenersi così per un mese, quello bianco non più di 15 giorni.
martedì 27 settembre 2011
La pera volpina .
Un frutto che i contadini di una certa età ricordano con nostalgia è la pera volpina, che maturava in autunno insieme alle sorbe, le azzeruole e le giuggiole.
Ormai si possono trovare solo nella zona di Casola Valsenio, dove da qualche anno ci si è messi d’impegno a produrre e a far rivivere questi frutti della terra quasi spariti.
Le pere volpine si mangiano solo cotte, come si fa con le mele cotogne, cuocendole di solito nel vino rosso e con l’aggiunta di zucchero,chiodi di garofano e cannella fino a renderle morbide e irriconoscibili.
Sono di un verde rugginoso, di forma rotonda e di piccole dimensioni.
Erano uno degli ingredienti del “Savòur”, una specie di confettura contadina ottenuta col mosto arricchito di frutta , anche secca, che si faceva in tempo di vendemmia.
Oltre alla volpina, un’altra pera dimenticata è la “moscadella” , chiamata così perché di polpa molto dolce il cui sapore ricorda l’uva moscato e di cui pare fosse goloso anche il Leopardi e che dovevano restare nella sua memoria per sempre.
mercoledì 21 settembre 2011
Lo squacquerone di campagna....
Nella campagna di una volta ,nel mese di settembre e all’inizio di ottobre, con la rinfrescata,i contadini cominciavano a fare il formaggio “squaquaròun”.
Nella stalla avevano la “lattifera “o una mucca che aveva finito di allattare il vitello e così facevano il formaggio da vendere al mercato o da scambiare con altri prodotti.
E il formaggio squaquaròun ,così fresco e morbido si vendeva bene e non dava tanto impegno, perché non occorreva conservazione o stagionatura di sorta.
E quando non veniva perfetto ma troppo acquoso e morbido , allora si mangiava in famiglia, la sera, con la piadina calda, ed era una mangiata squisita, per quei tempi.
Quando la sera i contadini tornavano dai campi, in tempo di vendemmia, e spalmavano il formaggio molle e bianchissimo su una mezza piadina piegata a metà,era una vera consolazione…. C’era molta miseria, ma qualche volta, ogni tanto la facevano una mangiata buona.
martedì 13 settembre 2011
Si riparte......
Il caldo clima di questi giorni settembrini ci ricorda che fino al 22 del mese siamo ancora in estate.
Poi l’autunno che rinfresca l’aria comincerà a mettere addosso una “voglia di fare” sia agli uomini sia agli aniumali.
E’ proprio in questa stagione che rondini e balestrucci cominciano a raggrupparsi sui fili della luce prima del grande balzo verso il continente africano.
I giovani non ancora ben sviluppati si affrettano a rimpinzarsi di cibo per mettersi alla pari con gli altri nella dura prova che li aspetterà sul mare aperto.
La rondine che vediamo partire oggi verso l’Africa sarà,con molta probabilità ,la stessa che ricomparirà la prossima primavera.
Questo uccello, che potrebbe a buon diritto essere preso come simbolo della migrazione, è famoso anche per la “fedeltà” ai siti di nidificazione.
Le rondini devono affrontare un viaggio di 12.000chilometri ,e per far fronte a questo sforzo fanno scorta di grasso alimentandosi per aumentare il loro peso anche del 20-30%in più.
Altri uccelli, invece ,effettuano spostamenti migratori più contenuti e alcuni ,se le condizioni del tempo non sono particolarmente avverse, possono anche rimanere,come la capinera, che ,alle nostre latitudini ,può sopportare bene l’inverno.
E allora, per gli uccelli che rimangono nei nostri parchi e nei nostri giardini,ricordiamoci per tempo di preparare dei luoghi di rifornimento con semi, palle di grasso o quanto serve loro per poter sopravvivere ai rigori del freddo invernale.
sabato 10 settembre 2011
Emigranti di Romagna....
Anche la Romagna diede il suo contributo all’emigrazione in terra d’America.
Pure il mio paese,San Mauro, e quelli vicini di Gatteo, Savignano e Sant’Angelo ,sono stati toccati da questo “fenomeno sociale”, specie sul finire dell’800 , inizio ‘900 e negli anni ‘20-30.
Molti di essi, contadini, emigrarono in Sud America a lavorare nelle piantagioni di caffè e non fecero più ritorno perché partire per un paese lontano ,allora ,significava spesso non tornare più .
In alcuni paesi, al momento della partenza degli emigranti ,sul mezzogiorno le campane invitavano i fedeli in chiesa per invocare la protezione della Madonna al canto delle Litanie.
Lo scrittore e poeta Luigi Pedretti diGatteo descrive bene l’atmosfera di quei tempi in questa poesia:
I và in te Brasil
A simi vers la fòin de sècul vèc
E l’era mez-dè,
fat ad sòul,ad chèld,
quand’al campèni
al sunet al Litanì.
_Piapi,Francòn,Foschi,
Fantinel,Romeo,
i s’imbarchèva pre Brasil!
In còr e’ piuvèt al Litanì.
La Madunòina ,
avstìda ad bruchèd,
tra al candòili,l’arlusìva.
E paret cla gès:
“Così sia”
An’iò piò vest,quei ch’iè andè via.
Si era alla fine del secolo vecchio/era mezzogiorno/ tutto sole e caldo/
Quando le campane /suonarono le Litanie./
Piapi, Francon, Foschi,/Fantinel Romeo/
Si imbarcavano per il Brasile/.
Piovvero le litanie/la Madonnina / vestita di broccato/
Tra le candele spendeva di luce/
Sembrava dicesse:/così sia./
Non li ho più rivisti, quelli che sono andati via.
domenica 4 settembre 2011
L'uva fragola.
Quando la filossera sembrò distruggere tutti i vigneti del Vecchio Mondo, la salvezza venne dall’America.
I ceppi delle viti di quel lontano paese vennero introdotti in Europa e su questi si innestarono nuovamente i vitigni originari.
Così l’Europa riebbe salve le sue vigne, dove rimasero anche alcuni di quei vitigni selvatici non innestati.
Col tempo si cominciò ad apprezzare l’uva che producevano : acini tondi,vellutati,con la buccia spessa e un curioso sapore di fragola.
Non era uva buona da vino , ma dolce e piacevole da mangiare e perfetta per farne mostarde.
La chiamarono “uva fragola”,e ancora oggi è conosciuta con questo nome ,oltre, naturalmente che con quello di “uva americana”.
E’ un’uva forte, rustica,che non ha bisogno di particolari cure e non richiede fitofarmaci e perciò sta tornando di moda come uva da tavola ecologica.
Ricetta della mostarda all’uva fragola:
Per ogni chilo di uva :tre etti di zucchero,gherigli di noce e fette di pera duretta .Cuocere l’uva sgranata fino a che gli acini si rompono ,passare al setaccio , rimettere nel tegame e aggiungere alcuni gherigli di noce tritati grossolanamente e due-tre pere a fettine.
Fare addensare a fuoco basso sempre rimescolando finchè non abbia assunto consistenza cremosa.
Travasare nei barattoli a chiusura ermetica facendoli sterilizzare in acqua bollente per 10-15 minuti .
Questa mostarda , simile al Savòr romagnolo, si accompagna molto bene alle carni lessate o alla polenta, come si usava una volta in gran parte del mondo contadino.
giovedì 1 settembre 2011
La sfròmbla....(la fionda).
Uno dei giochi più popolari tra i bambini di una volta, soprattutto maschi, era “la sfròmbla”, la fionda, che ,più che giocattolo, era una vera e propria arma di difesa e offesa.
Quanti fanali e quanti vetri sono andati in frantumi, grazie a questo strumento…..
Non poche erano però le difficoltà che si incontravano per costruire una buona fionda.
Per prima cosa bisognava trovare il ramo giusto, con la grossezza e la biforcazione più corretta per legarci gli elastici, che di solito si ottenevano da certe camere d’aria particolari che si conservavano gelosamente.
Poi serviva il pezzetto di cuoio che doveva contenere il sasso ,e nel mio paese, dove c’erano molti ciabattini, era la cosa più facile da ottenere.
Il tutto veniva assemblato e tenuto insieme con del filo robusto da calzolaio avvolto strettamente e ormai lo strumento era completato….
A questo punto non restava che procurarsi i sassi adatti, rotondi, ben calibrati in rapporto alle dimensioni della fionda e farne una buona provvista.
E poi si cercavano gli obiettivi su cui esercitare la mira….che andavano dalle banderuole segnavento sui tetti, dai lampioni, dalle lucertole agli uccelli e fino anche a veri disastri che poi causavano di conseguenza la confisca e la distruzione della fionda da parte di maestri e genitori.
domenica 28 agosto 2011
Cellette votive e Madonnine rurali.
Questa madonnina votiva si trova sul muro di una casa colonica nei pressi di Montaletto di Cervia.
Girando per le strade di campagna e tra le vecchie case di alcuni paesi della Romagna,si possono incontrare ancora, sulle facciate, di questo tipo di cellette e madonnine.
La presenza di una immagine sacra sui muri delle case rurali era molto familiare, un tempo: era una forma antica di religiosità che aveva anche lo scopo di affidarsi alla protezione di un potere supremo ,il quale poteva tutelare la struttura muraria delle case e preservarle da malattie , incidenti e incendi dei raccolti....
domenica 21 agosto 2011
Omaggio ai Tre Martiri di Rimini.
Oggi il nostro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano , prima di andare ad inaugurare il Miting, renderà omaggio ai tre martiri impiccati dalla furia nazifascista nella piazza che oggi è a loro dedicata.
Erano giovanissimi: Mario Cappelli aveva 23 anni, Luigi Nicolò 22 e Adelio Paglierani appena 19.
Sono stati impiccati per il solo motivo di boicottare la trebbiatura , come facevano in quell’estate molti contadini, che procuravano guasti continui alle macchine per non dover consegnare il grano che veniva requisito dai mazifascisti nell’estate del ’44.
Arrestati e torturati per due giorni, non fecero il nome dei compagni e scatenarono la furia cieca dei tedeschi che li impiccarono dopo un processo sommario ,col solo intento di dare “l’esempio”……
La campagna locale, durante l’estate del 1944 fu violentemente bombardata nel riminese e nel circondario….e molte case rurali vennero colpite e ci furono molte vittime.
Nonostante ciò molti contadini diedero riparo nelle loro case coloniche a partigiani e ricercati esponendosi a pericoli e violenze.
Il raccolto del grano venne ritardato un po’ ovunque dai partigiani per non farlo requisire dai repubblichini e una parte addirittura sarà trebbiato solo in prossimità del Natale.
Le stalle vennero svuotate degli animali , requisiti dai tedeschi, e alla Tenuta Torre di San Mauro tutto fu demolito, perfino le botti, i tini e il mobilio.
Le piantate delle viti vennero distrutte dai carri armati ,gli alberi abbattuti e alcuni campi minati :alla ripresa dei lavori, in primavera, si dovette ricostruire e impiantare una buona parte della campagna, fossi compresi, pesantemente devastata.
giovedì 18 agosto 2011
Dolce come il miele
L’uomo utilizza il miele da circa 12.000anni e dai tempi più antichi alleva le api per ottenere questo alimento benefico e dalle molteplici proprietà.
L’ape , durante i primi 10-20 giorni di vita si occupa di costruire e ampliare i favi e di trasformare il nettare portato dalle bottinatrici.
Poi, ,fino alla 5°- 6° settimana ,le api diventano bottinatrici , coprendo ,per la loro ricerca, un arco di 2 chilometri,e morendo generalmente di sfinimento in un ultimo giro di bottinaggio.
Nel momento in cui l’ape ,carica di nettare , inizia il volo di ritorno verso l’alveare, comincia quel meraviglioso processo naturale che è la produzione del miele.
Le api bottinatrici ogni volta trasportano un carico di circa 40 mg.di nettare,che accumulano in una sacca detta “borsa melaria”e normalmente per trasportare un litro di nettare sono necessari 25.000 viaggi.
Le api di casa ,le costruttrici, provvedono a manipolarlo:vi aggiungono enzimi e dopo diversi passaggi lo sistemano nelle celle ,dove subisce l’evaporazione e, una volta maturo, la copertura con un sigillo di cera.
Le api fanno tutto da sole,l’unico intervento dell’uomo , in pratica,consiste nella raccolta del miele dai favi e dall’alveare.
A seconda delle fioriture della zona in cui sono posti gli alveari, il miele varia moltissimo di sapore ,colore e consistenza:si va dall’aroma delicato di quello di acacia, al profumato miele di tiglio, al gusto amarognolo di quello di castagno ,a quello pungente di eucalipto e ancora di lavanda, di sulla, di arancio e cento altri……….
venerdì 12 agosto 2011
Il Gorgoscuro del Rubicone.
Dal libro "La valle del Rubicone Urgon", di Rino Zoffoli, ho tratto queste note su un luogo poco conosciuto di questo fiume.
Nel fondo valle tra il colle di Montecodruzzo e il colle di Ciola Araldi, il fiume Rubicone scorre per circa un chilometro in una zona rocciosa coperta di spessa vegetazione.
Questo tratto è chiamato Gorgoscuro:è un tratto piuttosto impervio e ombroso che nel passato fu usato dai briganti come nascondiglio e più recentemente ,durante l’ultima guerra mondiale,come rifugio per gli sfollati dai paesi vicini.
La zona si può visitare percorrendo un piccolo sentiero ,detto “Degli Argonauti”,tracciato sul bordo del fiume in mezzo a un ambiente boschivo molto selvaggio e rigoglioso.
S’incontrano piccole marmitte dei giganti e due stupende cascatelle ,circondati da una lussureggiante vegetazione che fa da rifugio alla fauna tipica della collina romagnola, sia uccelli che mammiferi selvatici come tassi, donnole, ricci, istrici, lepri…
Visitare il Gorgoscuro è una piccola avventura in un lembo di paradiso incontaminato ,dal quale ammirare squarci di panorami suggestivi e ancora poco conosciuti.
lunedì 8 agosto 2011
Agosto: il taglio della canapa.
La prima metà del mese d’agosto un tempo era il periodo del taglio della canapa.
Era un lavoro che veniva fatto per lo più i primi giorni del mese, massimo il dieci, giorno di San Lorenzo.
La canapa era un prodotto molto pregiato e coltivato ben volentieri dai contadini di una volta ,perché rendeva parecchio e perché una parte del raccolto si teneva per farne filati coi quali tessere lunghi torselli di tela.
I contadini la seminavano nei campi ben concimati dallo stallatico nella seconda metà di marzo, e per evitare che gli uccelli facessero danni mettevano banderuole o spaventapasseri.
Le piante di canapa variavano nell’altezza secondo una buona o cattiva concimazione, in alcuni campi si potevano vedere piante alte anche più di due metri.
Si falciava con una apposita falce a mano, prima che venissero in uso le falciatrici meccaniche che si usavano anche per tagliare il fieno ,e se ne facevano mannelli che si lasciavano a seccare nei campi in mucchi circolari.
Poi, una volta seccata, si sbatteva per toglierne le foglie e i mannelli venivano caricati sui carri e portati nei maceri, dove si sarebbero tenuti sott’acqua per almeno quindici giorni , per poi farli asciugare e aspettare la squadra della “gramadòra”…..
giovedì 4 agosto 2011
Il dialetto,lingua della memoria.
Questa poesia in dialetto romagnolo, e più specificatamente gatteese, è di Giuseppe Ceccarelli,che ha svolto a lungo la professione di maestro in collina e in pianura,ma soprattutto nel suo paese, Gatteo.
Paiòis
Cvàtar chèsi racvacèdi
Tra i pì d’un vec castèl
E tòt datòund un zèt
ch’u s’sènt i ciòul di pasaròtt,
i s-ciocch de manapèz de vsòin
che s-cèmpa la legna par l’inveran,
i rogg ad chi burdèll
chi zuga sota e’ zrìs.
E tè cum fèt a dèj
Che t’vò cambiè paiòis?
Paese
Quattro case rannicchiate/tra i piedi di un vecchio castello/ e tutt’intorno un silenzio/
Che senti il ciangottio dei passeri/gli schiocchi della scure del vicino /che spacca la legna per l’inverno/ le urla dei bambini/ che giocano sotto il ciliegio./ E tu come fai a dire/ che vuoi cambiare paese?
mercoledì 27 luglio 2011
L'amicizia nei proverbi
Sapere di poter contare , in caso di bisogno o di tristezza, sull’appoggio di un amico, non ha prezzo….Infatti “Chi trova un amico, trova un tesoro”, recita il proverbio più citato,insieme ai seguenti detti: “E’ nelle sventura che si conoscono gli amici” e “ Gli amici si riconoscono nel momento del bisogno”.
Forse gli amici si riconoscono bene in quei casi perché restano in pochi e i più se ne scappano,tanto che sono in numero molto maggiore i proverbi che mettono in guardia contro coloro che si dichiarano amici ma non lo sono veramente.
Infatti bisogna evitare come la peste chi si dimostra amicone di tutti perché “Chi è amico di tutti è amico di nessuno”, oppure chi è frustrato e malcontento, perché” E’ male amico chi a sé è nemico”, e allora è meglio stare a vedere se “amico di buon tempo, mutasi col vento”.
E’ sempre meglio andarci con i piedi di piombo anche negli affari, perché”Cessato il guadagno, cessata l’amicizia”, e non sempre poi”Con un amico a lato, ogni guaio è sistemato”…..
Un proverbio contadino dice” Ognuno è amico di chi ha un buon fico”, come a dire che l’amicizia gratuita difficilmente si può ottenere, tanto che è meglio non illudersi e tenere in mente il proverbio che dice: “ Parla all’amico come se avesse a diventar nemico”.
Insomma, pur con mille cautele, però un amico vero è una fortuna, tanto che” Meglio un amico che cento parenti, pur ricchi e potenti”.
venerdì 22 luglio 2011
Il rosmarino.
Il rosmarino è pianta venerata fin dall’antichità da egizi, greci e arabi ,che ne han fatto grande uso sia in farmacopea sia durante i riti religiosi , sino alle pratiche magiche.
Botanicamente è un arbusto sempreverde ,alto allo stato spontaneo anche due metri, con foglioline odorose,aromatiche ,e con fioritura azzurro-lilla.
Per le sue origini mediterranee il rosmarino è un arbusto non propriamente rustico se non in determinate situazioni, ed infatti,osservando i grandi rosmarini nelle aie o nei cortili di campagna, possiamo notare come essi siano sempre posti al riparo di un muro , o al margine di una scarpata in posizione assolata e calda.
Sul rosmarino sono fiorite tutta una serie di credenze sul suo influsso benefico: nelle campagne bolognesi si pensava che i suoi fiori, messi sotto il letto, avrebbero allontanato i brutti sogni , mentre molti hanno sempre sostenuto che il suo profumo potenziava la memoria.
Era usato in unguenti e pozioni per rinvigorire le forze e fare impacchi per vari mali, oltre a farne un’acqua distillata contro l’astenia e la tristezza .
Dal rosmarino viene estratto ancora oggi un olio essenziale indispensabile per l’industria,che lo adopera in farmacologia, in profumeria e in cento applicazioni diverse.
Il rosmarino, oltre che per insaporire molte pietanze e arrosti, può essere usato per una bibita molto dissetante per l’estate, insieme al succo di limone.
Occorrente:
1litro d’acqua
4 cucchiai di zucchero (oppure la quantità a piacere)
12 cucchiai di succo di limone ( circa 4 limoni succosi)
1rametto di rosmarino
1 limone a fettine
Mettere l’acqua in un pentolino con lo zucchero,1cucchiaio di foglie di rosmarino e 3 cucchiai di succo di limone .Portare ad ebollizione e far sobbollire a fuoco basso per 10 minuti.
Unire il resto del succo di limone ,filtrare, far raffreddare e mettere in frigorifero.
Servire la bibita ben fredda con una fettina di limone e un ciuffetto di rosmarino fresco.
mercoledì 13 luglio 2011
Antichi mestieri: il cordaio.
Un tempo, quasi in ogni paese del nostro circondario,vi era uno o più fabbricanti di corde, mestiere che a San Mauro è sopravvissuto fin dopo la seconda guerra mondiale.
Le nostre erano terre in cui di coltivava molta canapa, e perciò la materia prima era a portata di mano.
La fibra più grezza,ricavata dalla “pettinatura” dei fasci di canapa,era usata appunto per realizzare le funi, operazione che richiedeva pochi attrezzi rudimentali e uno spazio all’aperto in cui lavorare.
Nel mondo contadino si lavoravano le corde per uso familiare, ma il lavoro del cordaio era un vero e proprio mestiere, tanto che a san Mauro ve ne erano addirittura tre, a fare questo lavoro.
Il procedimento per fabbricare le corde consisteva in poche operazioni di base.
Dapprima bisognava realizzare singole cordicelle : una persona cominciava a legare a una ruota le filacce di un mazzo di fibre grezze e mentre indietreggiava,un’altra girava la manovella in modo che le filacce arrotolandosi prendevano la forma cordicella.
Successivamente ,diverse di queste cordicelle , generalmente tre,venivano unite ad un robusto gancio girevole e si ripeteva il procedimento, usando una ruota più robusta, per ottenere la torcitura e la formazione delle corde, alcune anche molto lunghe e di grande spessore.
Una volta intrecciate e fermate, le corde venivano spesso ammorbidite con del grasso di maiale e poi avvolte in rotoli o matasse.
Il cordaio aveva una sua bottega dove vendeva spaghi, corde e altri attrezzi,ma era uno di quei lavori che si faceva all’aperto, lungo una strada o un campo oppure lungo l’argine dei fiumi, in quanto occorreva molto spazio in lunghezza e un luogo sterrato dove conficcare le forche che servivano a sostenere le corde da terra e tenerle ben tese, in modo che non si formassero irregolarità non volute.
venerdì 8 luglio 2011
La camomilla : l'erba del buon sonno.
In ogni parte della nostra campagna, lungo i sentieri , le siepi e i prati non contaminati dalla civiltà meccanica, vivono moltitudini di piante arbustive ed erbacee, dotate di preziose proprietà medicinali.
Tra questi,la camomilla è uno dei primi fiori che ricordo e anche il suo profumo è tra i primi della mia memoria, alla pari, forse, con quello del fieno a seccare al sole.
Da piccola ero affidata a mia nonna, e d’estate ,ogni tanto , si andava a raccogliere la camomilla in certe zone dove cresceva spontanea,e ve n’era in grande quantità, uno spettacolo a vedersi!
Poi a casa si staccavano i capolini bianchi ,separandoli dalle foglie,e si mettevano su un telo a seccare all’ombra e ogni tanto mia nonna mi mandava a rimescolarli e a distenderli di nuovo.
I fiori della camomilla, una volta ben seccati, venivano conservati in barattoli di vetro e d’inverno non c’era sera che noi bambini non trovassimo la nostra tazza fumante piena di un bel liquido giallo che niente ha a che fare con la camomilla in busta di oggi.
Mia nonna , oltre che come infuso, la usava per un olio che serviva per le mani screpolate, mettendo a macerare i fiori a bagnomaria in poco olio e pestando e filtrando poi il tutto.
Ma il procedimento purtroppo non lo conosco, cose di una volta, quando le creme e le pomate di bellezza in campagna non si compravano ma si cercava di farsele da se….
domenica 3 luglio 2011
Minestra di maltagliati coi piselli.
In una realtà , come quella contadina di una volta,in cui la minestra in brodo compariva in tavola un giorno sì e uno no,d’estate si cucinava molto spesso aggiungendo i piselli freschi.
Al posto del brodo di carne,in una pentola si faceva un soffritto con la cipolla tritata, pancetta o prosciutto,in poco olio,si aggiungeva acqua e conserva e vi si facevano cuocere i piselli.
Intanto si era fatta una sfoglia , preferibilmente con le uova, che si era tagliata a rombi irregolari,chiamati appunto maltagliati.
Quando i piselli erano cotti si versavano nel brodo i maltagliati e si cuocevano pochi minuti, poi
si scodellava la minestra nei piatti e spesso vi si aggiungevano dei pezzi di pane raffermo, che si gonfiavano insaporendosi e rinforzavano la pietanza, tanto più che poi non sempre c’era una seconda portata…!
sabato 2 luglio 2011
Canta la cicala.......
La Zghèla la n’chenta miga, se San Zvan e San Pir in la stuziga”.
Perché la cicala canti, ha bisogno di essere stimolata dal caldo di giugno, ma è luglio il centro del suo lavoro.
Sulla cicala i contadini cantavano con dolore la loro vita di stenti e di fatica:
In piena estate, dalla tarda mattina fino a quando il sole calava, tra le piante dell’aia e in quelle dei campi, si sentiva la cicala con il suo monotono canto.
Erano miriadi, che portavano il loro ronzio nelle silenziose campagne e nelle corti delle case coloniche.
Però il suo canto diventava di troppo per chi andava a riposare nelle ore più calde dopo il pranzo di mezzogiorno ,e per chi era stanco e aveva sonno.
La moltitudine delle cicale era un coro molto disturbatore, ma anche molto allegro.
Si riunivano quasi sempre negli alberi poco distante alle case, perché era più facile trovare acqua per dissetarsi nelle vasche o nelle pozzanghere.
Sulla cicala dalla vita corta, di tre giorni, chiamata in campagna “dai-dai,hanno scritto in molti favole, poesie e cantilene, una delle quali,di origine contadina recita così:
“La chènta la zghèla : taja, taja! E’ grèn a e’padròn, a e’ cuntadèn la paja,
La chenta la zghèla a e’ zgalèn, e’ grèn a e’ padron , la paja a e’cuntadèn.
sabato 18 giugno 2011
Il solstizio e la festa di San Giovanni Battista
Giugno è il mese del Solstizio d’estate, quando il dì è più lungo della notte.
Il Solstizio d’Estate è stato un giorno dell’anno importantissimo per tutte le civiltà del passato: è il giorno di massima luce solare e per questo è rimasto nell’immaginario popolare un giorno “magico”, accompagnato da strane apparizioni, come folletti, maghi e streghe .
Le feste solstiziali hanno il loro culmine il 24 giugno , giorno nel quale il sole, “Lucerna del mondo”, come lo definisce Dante, inizia a declinare.
Il 24 giugno cade la festa di San Giovanni Battista, 6 mesi esatti dopo la prima grande festa cristiana del natale di Gesù, che segna l’altro solstizio, quello invernale.
Questo giorno, che gli inglesi chiamano “Midsummerday”,giorno di mezza estate,è il giorno propizio alla raccolta delle erbe dalle proprietà curative e salutari ,come se in questo giorno potesse confluire la massima potenza del Sole, fonte di calore e vita.
Un tempo, durante la notte di San Giovanni ,si pensava che le streghe si dessero convegno per i loro orrendi propositi ,e, nelle campagne, si cercava di evitare di incontrare qualcuna di queste sconsiderate e si mettevano in atto scongiuri perché non entrassero in casa.
Il rimedio più sicuro ,era mettersi in tasca o all’occhiello o davanti all’uscio,le cosiddette “Erbe di San Giovanni”, come l’iperico, la ruta, l’aglio e l’artemisia.
L’iperico,soprannominato anche “cacciadiavoli” è l’erba di San Giovanni per antonomasia.
Ma soprattutto la notte di San Giovanni è favorevole per la raccolta delle erbe della buona salute, come la salvia e tutte le mente,, che, insieme all’alloro giovanneo,combattono influenza e mal di pancia dei bambini.
A questa magica notte è collegato anche un albero dal cui frutto si ricava un liquore tipico della pianura Padana: il nocino.
Secondo la tradizione , le noci si staccano ancora verdi e si tagliano con una falce o una lama di legno, mai di metallo, così che l’infuso possa conservare le sue proprietà magiche e digestive.
mercoledì 15 giugno 2011
La mietitura a mano.
La mietitura del grano ,molti anni fa,era un lavoro che durava dieci-quindici giorni, e prima di iniziare i lavori, se c’erano nubi, aspettavano finchè non si fossero sciolte.
In quei giorni si trasformavano tutti in esperti di meteorologia e ognuno diceva la sua: chi guardava i piccioni se tornavano tardi alla colombaia, se l’usignolo cantava tutta la notte, o se i passeri erano più chiassosi del solito e le rane si tuffavano nei fossi , tutti segnali di pioggia imminente.
Inoltre , per scaramanzia, non si cominciava mai a mietere di venerdì, ma ,se si poteva, il giorno propizio alla buona sorte era il sabato.
Per san Giovanni, 24 giugno, si diceva che il grano si poteva mietere anche se non era secco, perché era maturo.
A mano a mano che si mieteva , aumentava il numero dei covoni, che molti lasciavano nel campo perché dicevano che erano più sicuri che nel “barco”, nella bica, e li portavano a casa col biroccio poco prima di trebbiare
Durante la mietitura tutti i componenti della famiglia lavoravano il più possibile, da buio a buio, per spendere meno in manodopera esterna, magari con l’aiuto di qualche parente o vicino,a cui ricambiare il favore con del grano a fine raccolto.
Molte famiglie, nel periodo della mietitura non guardavano all’economia: il primo spuntino si faceva verso le 6 di mattina, dopo un’ora o due di lavoro,a base di pane,salame e formaggio.
Poi verso le 9 c ‘era la colazione vera e propria, portata dall’”arzdòra” nel campo dove si lavorava. Di solito era una frittata , o pancetta fritta condita con l’aceto , qualche fetta di formaggio, pane a volontà e vino del migliore con acqua fresca del pozzo.
A mezzogiorno invece si tornava a casa per mangiare a tavola e dopo si faceva un pisolino di mezz’ora , all’ombra di un pagliaio o di una pianta , e poi via fino a sera, nel caldo e nella polvere.
E intanto che si lavorava si buttava sempre un occhio al cielo, e si badava che non nascessero nubi verso il “malcantòun”, da dove potevano venire temporali con pioggia e grandine.
In questo caso , a sera,dopo cena ,aspettavano il canto del gallo, che” se e’ chènta e’ gal dop zèna, quand l’è nòval u s’arserena”.
venerdì 10 giugno 2011
"Odorata ginestra"....
E' il tempo della fioritura esuberante della ginestra.
Pianta rustica,cresce bene anche su terreni secchi e pietrosi.
Un pregio ,questo ,che potrebbe convincere molti a piantarla nei giardini di città, dove d'estate è difficoltoso e dispersivo innaffiare con l'acqua delle condutture pubbliche.
...e ora quattro versi della famosa poesia che Leopardi dedica a questa pianta spartana, l'ultima che compose in sua vita.
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti.Anco ti vidi
De' tuoi steli abbellire l'erme contrade
Che cingon lle cittade....
martedì 7 giugno 2011
il grillo canterino...
Già dalla tarda primavera, nelle campagne di Romagna erano molti questi animaletti che al fresco serale facevano sentire il loro “cri-cri” squillante che durava fino a notte fonda e a volte fino all’alba.
Nel mese di maggio, nei campi dopo il taglio del primo fieno,o sulle carraie ,o sulle rive dei fossi, dove il terreno restava non lavorato, i grilli facevano le loro tane a volte anche profonde.
"E’ grèl marièn", il grillo mariano, forse chiamato così per via che cominciava a cantare nel mese dedicato a Maria,a volte si riusciva a vederlo quando usciva dalla tana e vi rientrava al minimo rumore.
Molti li catturavano per tenerli in gabbia e regalarli ai bambini ,che si divertivano a sentire il loro “cri-cri”così vicino.
Chi era un buon scrutatore, poco prima che calasse il sole, nel fresco della sera , si metteva in orecchio a seguine il canto ,e piano piano silenziosamente,si avvicinava cercando il nascondiglio, spesso costruito sotto un cespo di foglie.
Poi la mattina o durante il giorno , quando il grillo dormiva,prendevano una bottiglia d’acqua e la spruzzavano nel cunicolo ,in modo che il povero insetto era costretto ad uscire insonnolito e bagnato .
Allora lo acchiappavano velocemente e lo chiudevano nella gabbietta di cinque centimetri per cinque,alta dieci, fatta di fil di ferro o rametti di erba , con dentro una foglia di insalata.
I grilli prigionieri però venivano quasi sempre liberati dopo pochi giorni, perché altrimenti potevano morire e sarebbe stata una disgrazia, dato che per molte famiglie romagnole guai a uccidere un grillo in casa o anche solo scacciarlo: infatti un tempo era presagio di grande fortuna se un grillo entrava a cantare nelle loro abitazioni.
sabato 4 giugno 2011
"Bel lucciolaio, bel granaio".
Le lucciole arrivavano da metà maggio –primi di giugno, e i contadini le aspettavano fiduciosi, perché secondo se erano poche o tante pronosticavano :” Se le lucciole vengono in molte, si avrà buon raccolto, se invece vengono in poche, il raccolto sarà scarso”.
Era una credenza che derivava dal proverbio che , prima che i pesticidi eliminassero quasi del tutto le lucciole, diceva;” Bel lucciolaio, bel granaio”.
Ai bambini , affascinati dalle lucine che vagavano nella notte sui campi, si raccontava che le lucciole erano degli animaletti fatati venuti “ Per fè e’ lòm me grèn “, per fare lume al grano che stava maturando.
Alcuni bambini le rincorrevano e riuscivano a prenderne qualcuna, che poi tenevano in mano o mettevano per qualche minuto sotto un bicchiere rovesciato per poter osservare la loro piccola fiammella, pieni di meraviglia.
E cantavano :
Lozzla, lozzla, cala cala
Met la breja a la cavala
La cavala la j’è de rè
Lozzla lozzla, vèn da mè.
Chi ha avuto la fortuna di vedere le lucciole quando ancora ce n’erano tante sa che era uno spettacolo da rimanere incantati,….adesso se si riesce a vederne tre o quattro tutte in una volta, come è capitato a me qualche sera fa ,e per di più in un giardino fra le case del paese, è già una grande sorpresa.
mercoledì 1 giugno 2011
La conserva di pomodori di una volta.
Ormai andiamo verso l’estate e si apre la stagione d’oro dei pomodori, quelli che maturano al nostro sole, nel nostro orto di casa.
I pomodori, rossi e polposi , sono sempre stati un ingrediente base della nostra cucina romagnola , indispensabili per i ragù della domenica , per i sughi di brodetti ,umidi, zuppe, o da fare “in gratè”…..accanto a cipolle e melanzane.
E per conservare il sapore e il colore dei pomodori per tutto l’anno e per il lungo inverno, anche una volta, ,in campagna, le nostre nonne preparavano la loro conserva di pomodori.
Ci si approvvigionava di un buon quantitativo di pomodori belli ,sani e maturi, che si lavavano e si tagliavano a pezzi.
Questi venivano messi in un grande caldaio o in un mastello ,che spesso era quello del bucato, a bollire su fuoco basso piano piano ,coperti con un telo.
Si lasciavano i pomodori a cuocere lentamente per far perdere gran parte dei liquidi, poi si toglievano dal fuoco e si lasciavano a raffreddare e a macerare per tutta la notte.
Il mattino dopo si passava il tutto al setaccio per togliere le bucce , la polpa densa si metteva in sacchetti puliti di tela bianca e questi allineati su un’asse inclinata con sopra pesi o mattoni che servivano a farne uscire l’acqua.
Alla fine si otteneva una conserva ben soda e asciutta, che si conservava a lungo in recipienti di terracotta mantenuti in cantina o in un luogo fresco e arieggiato , dove se ne sarebbe preso quel tanto che serviva giorno per giorno per dare colore e sapore alla modesta cucina che usava un tempo nella campagna di appena ieri.
giovedì 26 maggio 2011
Un coro di solisti
Fringuello maschio
Quando all’inizio della primavera il sole comincia di nuovo a riscaldare l’aria, il fringuello è uno dei primi a far sentire la propria voce.
Viene seguito subito dal canto degli storni, dei merli , degli usignoli e dei tordi.
A fine maggio saranno tutti presenti e il coro raggiungerà dimensioni “sinfoniche”.
In questo grande concerto ogni uccello riconosce il motivo dei suoi simili,perché ogni specie ha il suo motivo caratteristico.
Di ogni specie sono solo gli esemplari maschi che cantano, mentre le femmine emettono soltanto qualche suono e sembrano non essere neppure interessate alla cosa.
I maschi invece rispondono subito al canto di un loro simile: quasi sempre, infatti, è un segnale di un maschio che vuole far sapere che quella zona è già occupata eche la difenderà con tutte le sue forze!.
All’alba, quando non c’è ancora traffico e città e campagne dormono ,molti uccelli canori ci deliziano con i loro magistrali concerti primaverili a cui tutti partecipano, anche le specie più schive, che raramente si vedono di giorno.
venerdì 20 maggio 2011
I fagioli dall'occhio.
In Italia il fagiolo è stato coltivato fin dall’antichità.
Era il fagiolo dall’occhio, l’unico fagiolo autoctono del Vecchio mondo, essendo originario dell’Africa e dell’Asia, da non confondere con i fagioli che si trovano oggi in commercio, che provengono invece dall’America.
Il fagiolo dall’occhio , chiamati così per la caratteristica macchiolina nera tonda, è piccolo, con buccia sottile e pasta cremosa.
Se un tempo erano molto consumati e fino a qualche decennio fa ancora apparivano sulle nostre tavole, ora sono quasi scomparsi e sono coltivati solo in alcune zone della Puglia e della Toscana.
Quelli che troviamo in commercio, se li troviamo, provengono quasi tutti dalla Nigeria, grande produttrice in quanto questo legume sopporta molto bene la siccità e cresce vigoroso anche nei terreni aridi.
Il fagiolo dall’occhio era il classico fagiolo dell’orto di campagna : si seminava in maggio e si raccoglieva fresco dalla prima quindicina di ottobre e secco a fine novembre.
I fagioli erano molto consumati nelle famiglie campagnole di una volta: col sugo di fagioli si condiva la polenta,oppure si facevano minestre in brodo con fagioli e manfrigoli o maltagliati di pasta matta.
E poi c’è la zuppa di fagioli, i “fasùl s-cèt” cioè schietti, da soli, senza sfoglia o pasta o altro….al massimo solo qualche tenera cotica.
La ricetta è semplice:si fanno cuocere a fuoco basso lentamente i fagioli tenuti a bagno per tutta la notte, salando solo verso fine cottura.
A parte , in una pentola ,si fa soffriggere in due cucchiai d’olio uno spicchio d’aglio schiacciato e un rametto di rosmarino.
Si aggiunge un cucchiaio di conserva di pomodoro e vi si versano sopra i fagioli lessati con la loro acqua , lasciando sul fuoco ancora dieci minuti.
Una parte dei fagioli si può anche passare al passaverdure per rendere la zuppa più densa, che poi viene servita con fettine di pane raffermo ,come si usava una volta, quando si faceva per mangiare il pane secco o la piadina avanzati i giorni prima.
domenica 15 maggio 2011
E' mi fiòmm- il mio fiume.
Questa è una poesia dedicata da Tonino Guerra al fiume Marecchia, il fiume profondamente ferito e derubato di sabbia ,ghiaia e sassi negli anni precedenti la legge regionale del 1976 ,che ha messo un freno a un disastro che mostra ancora oggi i suoi segni.
E’ mi fiòmm
Eulta e’ mi fiomm
U i è tòtt un mond
Ch’l’è fat ad càni, ad fraschi
E bagaròzz ch borma te su bòzal,
chi sòuna se tai scroll;
mo sa girài?
E u i è dal counchi ‘d rèina
Da stè cuclèd dri l’aqua
In zica d’or
S’ona ad cal sdazi veci da farèina .
Te zil
Una culomba a un tèir ad s-ciòp.
Lungo il mio fiume/ si muove un mondo/ di canne di frasche/
Di bacherozzi che dormono nel bozzolo/e suonano se li sbatti;
chissà che cosa diranno.
Ci sono avvallamenti di sabbia/da star accoccolati vicino all’acqua/
Per cercare l’oro/con un vecchio setaccio da farina.
Nel cielo c’è/ una colomba a un tiro di schioppo.
Da : “I bu” Maggioli Editore.
martedì 10 maggio 2011
La cicoria, l'erba del sole.
Da un punto di vista simbolico la cicoria è consacrata addirittura al sole, perché il suo fiore si apre al suo sorgere e si chiude al tramonto e nel vocabolario ottocentesco dei sentimenti rappresentava la frugalità e la temperanza.
Si trova quasi ovunque ,nei luoghi erbosi dal mare fino alla regione montana e ne esistono molte varietà, anche a foglie colorate .
La più comune è quella selvatica , che cresce ai bordi delle strade e dei sentieri assolati.
Ha radice a fittone ,fusto ramoso che può raggiungere il metro di altezza, e porta capolini di fiori sfrangiati di un bellissimo e inconfondibile azzurro da aprile fino all’autunno.
Se ne usano radici e foglie: dalle radici seccate, tostate e macinate un tempo si ricavava un surrogato del caffè, mentre le foglie sono commestibili solo quando la pianta è giovane e tenera, quando spuntano i tenui capolini celesti ormai le foglie sono dure e inutilizzabili.
Nelle campagne un tempo la cicoria era usata come medicamento per farne decotti contro le coliche intestinali , la stitichezza e per favorire la digestione.
sabato 7 maggio 2011
"LA LUMINOSA"
Alla fine di ogni mese lunare, quando la luna lascia vuoto lo spazio e solo un’orma ,un labile segno ne indicano la remota presenza, la temperatura scende , il tempo peggiora ,le nubi si inseguono e le onde del mare entrano in agitazione.
Lungo il corso del suo mese,la luna causa diversi effetti secondo le sue diverse fasi .
Quando cresce , tutti i corpi che abitano la terra e il mare si gonfiano e si riempiono insieme a lei.
La sua luce riscalda i semi, rende più vivaci le erbe, rinvigorisce le radici , gonfia i frutti sugli alberi e le viti, fa scorrere più rapidamente il sangue nelle vene degli uomini e favorisce il concepimento dei bambini e degli animali.
In questi giorni la pupilla del gatto , animale notturno, diventa più larga e rotonda,le formiche sono al massimo della loro attività e la farina , lavorata dai fornai ,fermenta anche senza lievito.
Quando invece la luna ritorna verso la propria consumazione i corpi si asciugano, il suolo inaridisce,i semi e la frutta rallentano la crescita, il sangue è più pesante , la pupilla del gatto si assottiglia e le formiche riposano.
Mentre la Terra gira, le acque marine più vicine alla Luna vengono attratte dalla sua forza di gravità, causando il fenomeno dell’alta marea, che può variare dal mezzo metro del livello medio delle acque del Mediterraneo fino ai 19 della Baia di Fundy in Canada.
Un tempo non c’era contadino che regolasse i lavori nei campi ,in cantina o le semine senza tenere conto delle fasi della luna.
Oggi con un’agricoltura intensiva e di sfruttamento la luna non la guarda più nessuno, e finalmente ha preso campo il proverbio che dice” Se il contadino guarda la luna, di cento faccende non ne fa una”……
martedì 3 maggio 2011
Lumache a primavera......
Un tempo, a primavera, dopo una notte di pioggia in campagna si poteva incontrare più di una persona con un paniere pieno di lumache, raccolte nelle vigne e nei prati.
Tutti in campagna una volta sapevano cucinarle e le lumache avevano molti estimatori , un po’ perché costituivano un cibo praticamente a costo zero, ma anche proprio per il gusto di mangiarle , un gusto particolare che o piace o non piace.
Oggi a molti parlare di mangiare lumache fa senso, ma quelli che le hanno provate, quando ancora si raccoglievano senza paura di veleni o simili, ne hanno molta nostalgia.
Certo è che le lumache bisogna saperle trattare e quando io ero bambina questo compito era dei miei nonni.
Il nonno le raccoglieva di buon mattino e le imprigionava in una tinozza di legno chiusa da un coperchio fermato con un mattone.
Le lasciava spurgare per un certo numero di giorni, le lavava e rilavava con l’acqua del pozzo e poi con acqua, aceto e sale grosso per toglierne il viscido, poi subentrava la nonna.
Lei metteva su il suo calderone e le faceva cuocere per un’ora abbondante in modo che si potessero togliere dal guscio, una volta estratte si pulivano,si sciacquavano ancora in acqua e aceto e si poteva procedere alla preparazione.
In casa nostra si cucinavano preferibilmente in umido , in un sugo di pomodoro, aglio e prezzemolo ,oppure fritte , che secondo me era la morte sua….
Per farle fritte si asciugavano, si infarinavano e si friggevano nello strutto, quando erano belle dorate e croccanti,si scolavano sulla carta gialla , sale ,pepe, e …sì, cose di ieri,proprio della campagna di appena ieri!
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